Esce oggi nei cinema italiani il film sulla straordinaria rivalità tra Björn Borg e John McEnroe: la pellicola è diretta da Janus Metz, con i due protagonisti interpretati da Stellan Skarsgard e Shia LaBeouf. Noi l’abbiamo visto in un teatro vittoriano di Notting Hill, a Londra. E vi suggeriamo, senza alcun dubbio, di non perderlo…Il turista che sia diretto al mercato di Portobello Road o che ritorni soddisfatto dalla passeggiata attraverso i giardini di Kensington difficilmente poserà lo sguardo sulla piccola sala cinematografica all’uscita della metropolitana di Notting Hill. The Gate Cinema è un teatro vittoriano di quartiere, riconvertito a sala di proiezioni, retrò in ogni dettaglio dagli stucchi agli orinatoi, al punto da domandarsi come possa ancora sopravvivere all’ombra dello Shard. È in questo teatro semi-deserto che ho assistito alla proiezione di Borg McEnroe, ultima creazione del regista e documentarista Janus Metz che esordirà nelle sale italiane il 9 novembre ma già disponibile a Londra da qualche settimana. La trama è abbastanza ovvia, trattandosi di una delle più grandi rivalità tennistiche di sempre: due titani che si scontrano in duello, il fiore all’occhiello della scuola svedese Björn Borg e la stella nascente americana John McEnroe. Si confrontano sul Centre Court dell’All England Club nella finale di Wimbledon del 1980, il primo alla ricerca del suo quinto titolo consecutivo, il secondo ad insidiare il primato e soprattutto conquistare per la prima volta i Championships.
Non serve aver calcato da giovani i campi da tennis per palpare la tensione di quest’incontro; anzi, solo lo spettatore ignaro dell’esito del match potrà divertirsi fino all’ultimo punto ad indovinarne il vincitore. Il film non è un omaggio alle doti tecniche dei giocatori, ma la rappresentazione di due icone sportive capaci di raggiungere anche un pubblico non esperto. Non si scontrano solo due stili di gioco, ma due declinazioni diverse dell’essenza più profonda e intima del tennis. Da un lato, l’algido gentleman che non lascia trapelare alcuna emozione dietro la sua maschera di ghiaccio, recitato dal sosia Sverrir Gudnason. Dall’altro un personaggio focoso, scapigliato, incontenibile, adolescenziale, sempre pronto a redarguire ogni arbitro a suo dire ingiusto, interpretato da Shia LaBeouf. All’apparenza sono espressione di una contrapposizione incolmabile: l’equilibrio zen della preparazione atletica e psicologica di Borg si alterna agli incisi rumorosi e disco della vita di McEnroe. Pur rispettando lo spessore di entrambi, il film indugia più sulla figura e sul passato di Borg (anche perché il film è stato scritto da Ronnie Sandhal, 32 anni di Falköping, una cittadina di 16.000 anime della Svezia orientale). E questa scelta lascia un filo insoddisfatta la nostra curiosità per l’altra campana. D’altra parte, McEnroe non è ancora campione ma solo sfidante, osservazione che non mancherà di irritare il personaggio stesso. Nelle retrospettive, Borg è un giovanissimo esordiente che palleggia sulla saracinesca del garage di casa e macina avversari più maturi di lui, impersonato dal secondogenito di Borg (nato da terze nozze, con Patricia Östfeldt, dopo che la seconda moglie, Loredana Berté lo ha perfino accusato di bigamia non ritenendo valido il loro divorzio). Tra l’altro Leo Borg, 14 anni, è tra i migliori tennisti al mondo della sua categoria. Sorprendentemente il giovane Borg è quanto di più simile ad un piccolo iracondo McEnroe. Il film svela i segreti della transizione dalla furia all’apatia e la costruzione attenta di un sistema di autocontrollo attraverso il lavoro del fedelissimo coach Lennart Bergelin, interpretato da Stellan Skarsgård.Per merito di questi flashback, il film acquista profondità. Si scopre come la distanza tra i due giocatori non sia poi così abissale. La rabbia e la paura di perdere sono il loro denominatore comune, che sia compressa nel top spin di Borg o scaricata sul povero arbitro da McEnroe. Entrambi devono combattere per evitare di logorare il proprio orgoglio e inseguire l’obbligo morale di disattendere le aspettative di quel pubblico sadico che non desidera altro che il fallimento degli dèi. Il giovane Borg è un rabbioso, che costringe la sua spasmodica necessità di vittoria nelle forme tecniche; McEnroe è un rabbioso, punto e basta, che fa della sua ira una caratteristica di gioco. Il tratteggio dei due personaggi si fa dunque più fine e intrecciato, tanto da sfumare la visione manichea che osanna la grazia di Borg e disprezza le intemperanze di McEnroe. Il tono non è mai celebrativo, un grande pregio della pellicola: lo stoico non è mai irenico ma superstizioso e maniaco della precisione; il ribelle non è mai eroico: piuttosto è frustrato e attaccabrighe. Nel loro tennis non traspare il divertimento del gioco, non si avverte la leggerezza della performing art. E non c’è possibilità di errore. La citazione iniziale di Agassi, per cui ogni partita di tennis è come una vita in nuce, è rovesciata: la vita si riduce ad una partita di tennis, tant’è che ad un certo punto, Borg stesso si domanda se lui possa essere altro rispetto al suo tennis. Per un non agonista, non è desiderabile immedesimarsi in questa dinamica totalizzante e forse un po’ caricaturale: il sacrificio è troppo grande e la gioia della vittoria troppo contenuta per lasciarsene solleticare: «Godi che re non sei» diceva Adelchi. Eppure questa è la forza del film, indagare sulla preparazione di un match al di là degli allori, l’attenzione alla guerra di nervi che inevitabilmente accompagna il gesto sportivo. Le più profonde di queste riflessioni sulla competizione sono affidate ai dialoghi tra Borg e la promessa sposa Mariana Simionescu, recitata da Tuva Novotny. È facile simpatizzare con il personaggio della Simionescu: dopotutto anche lei gioca la sua partita, divisa tra il supporto al compagno e il disincanto di una vita da passare sotto i riflettori e comunque sempre condivisa con la croce e delizia del tennis.
Ma alla fine i due protagonisti sono soli nel loro delirio di vittoria, soli in uno stanzino adiacente al campo a consumarsi di preoccupazione. La partita scorre velocissima in attesa della liberazione dall’ansia. La regia monda la struttura della partita per lasciarne solo la poesia, in verità solo qualche epigramma. La maggior parte dei punti sono raccontati da singoli fotogrammi di battute e gambe scattanti o dal tabellone che scorre o dall’appunto sensazionalista di qualche commentatore. Quando però la telecamera indugia su rari interi punti, allora siamo lì, racchetta di legno in mano, scaraventati sul Court di Wimbledon con la responsabilità che la prossima palla sia nostra. Questi punti non raccontano l’impresa, ma le difficoltà e i dubbi che l’accompagnano, con l’occhio del cineasta più che del documentarista. Non aspettatevi una cronaca fedele: c’è più psicologia che tennis perché il gioco è solo un pretesto per un’analisi introspettiva. Si rivivecosì tutta la paura della sconfitta di quell’eterno tie-break del quarto set e dei sette match point bruciati. Più eloquenti di ogni commento sono i profondi sospiri per mantenere la concentrazione dopo ogni punto perso. Sono ormai scomparsi il gentiluomo e l’urlatore: le due personalità antitetiche si sono fuse nel rispetto e nel timore reciproco. Non importa più chi vincerà e in effetti non c’è epica nell’ultimo punto: accade come in una partita di un qualsiasi torneo, senza badare a come quella partita abbia invece segnato la storia dello sport. Questa finale di Wimbledon non è la sola partita di tennis che in questi tempi condividerà l’onore di essere proiettata sul grande schermo. Il tennis vive un periodo d’oro al botteghino. Insieme con Borg McEnroe, lo scorso 19 ottobre è uscito anche La Battaglia dei Sessi, storia del match tra Billie Jean King e Bobby Riggs, intrecciata con le rivendicazioni femministe e la lotta per l’affermazione della dignità dello sport (e non solo) femminile. Immagino che la sensibilità del pubblico alle tematiche di genere richiamerà un grande pubblico per questo evento cinematografico, ma sarebbe un peccato se accadesse a scapito del ritratto psicologico di Metz sui due campioni e amici. Perdereste un fedele spaccato di tennis di inizio anni Ottanta e un aneddoto senza tempo di alta competizione sportiva.
LA RIVALITÀ
Bjorn Rune Borg (classe 1956) e John Patrick McEnroe Junior (classe 1959) si sono affrontati 14 volte in tornei ufficiali, con sette vittorie a testa. Hanno giocato contro quattro finali Slam, con tre vittorie per Johnny Mac. In carriera, Borg ha vinto 11 Slam (6 Roland Garros e 5 Wimbledon), McEnroe sette (4 US Open e 3 Wimbledon). Entrambi sono stati numeri uno del mondo: McEnroe per 170 settimane, Borg per 109. Va ricordato che Borg si è ritirato a soli 26 anni, prima di provare un improbabile rientro a 35 anni.

9 NOVEMBRE
Il film Borg McEnroe uscirà nelle sale cinematografiche italiane il 9 novembre. La rivalità tra Borg e McEnroe ha diviso gli appassionati di tennis negli anni Ottanta ma con il rispetto che ha comunque distinto il rapporto tra i due campioni. Ecco perché per molti over 45 sarà un modo per rivivere momenti particolari della loro vita (e non sarà un caso vedere dei gruppi di appassionati andare insieme a guardare questa pellicola).