Shapovalov dice che coi montepremi ridotti non ci sono stimoli, Paire colleziona primi turni per uscire in fretta dalle bolle dei tornei (ma dopo aver riscosso il prize money), e dal Tour arrivano lamentele a ripetizione. I tennisti non vogliono rinunciare a soldi e privilegi, come se non fosse lo stesso per tutti

Il calo dei montepremi è una necessità

Anche nel tennis di alto livello non è tutto rose e fiori, viaggiare ogni settimana in periodo di pandemia è senza dubbio più stressante del solito e passare da una bolla all’altra a suon di tamponi non è lo scenario migliore per poter giocare, ma certi tennisti stanno esagerando. Ogni settimana capita di sentire sparate tanto fuori luogo da risultare ridicole, tipiche di chi pare non rendersi esattamente conto della realtà in cui stiamo vivendo. Non spetta ai tennisti pagare per chi ha perso il lavoro (o addirittura la vita), ma in una situazione che ha messo in difficoltà il mondo intero fa strano leggere di chi si lamenta per l’isolamento negli hotel a 5 stelle durante i tornei, o addirittura parla di calo di motivazioni legato alla riduzione dei montepremi. La prima è stata Elina Svitolina, e poteva bastare così, invece di recente si è aggiunto Denis Shapovalov, che è uscito dal personale per farne un discorso più ampio e articolato. Secondo il canadese, se i montepremi dei tornei continueranno a essere ridotti anche nei prossimi mesi, si vedranno sempre più forfait da parte dei giocatori, privati della motivazione economica.

La riduzione dei montepremi non è altro che una questione di sostenibilità, visto che l’ATP e i suoi tornei hanno subito un ridimensionamento delle entrate, e di conseguenza devono limitare anche le uscite. Urge tuttavia ricordare che negli anni scorsi i premi sono costantemente aumentati, e comunque non sono banali neanche oggi: chi vincerà a Dubai, per fare un esempio, si vedrà accreditati sul conto corrente 150.000 dollari, ad Acapulco circa 90.000. È vero che paragonati a quelli di dodici mesi fa sembrano poca cosa (negli Emirati l’assegno per il primo era di 565mila, in Messico di 372mila), ma si parla comunque di cifre importanti. Eppure, pare che il malcontento sia diffusissimo. Addirittura, secondo Shapovalov molti tennisti giocano soltanto per ragioni commerciali, spinti da contratti che li obbligano a disputare un determinato numero di tornei per poter ricevere i relativi compensi. «Vado avanti per quello – ha detto il canadese – e anche perché punto a vincere tornei sempre più importanti e a scalare la classifica. Ma cercherò comunque di giocare meno tornei possibile: stare in una bolla ti consuma mentalmente. Credo che per i big sia ancora più difficile trovare le motivazioni: hanno già vinto tornei del Grande Slam e Masters 1000, non hanno motivo di andare ai tornei in questa situazione».

Il tennis è solo una questione di soldi?

Le parole di Shapovalov sembrano trovare conferma nella decisione di tanti big di non volare a Miami per il Masters 1000, come si è lasciato sfuggire anche Reilly Opelka (che fra i giovani è di gran lunga il più attento alle questioni politiche) in una discussione su Twitter. Il tema era l’eccessivo costo dei biglietti per il Miami Open, motivo che ha scoraggiato parecchi fan intenzionati a seguire l’evento, e il gigante statunitense ha parlato di tennisti non intenzionati a partecipare a causa dei prezzi di hotel e voli schizzati alle stelle. Una questione che con i montepremi tradizionali passerebbe in secondo piano, mentre col prize money ridotto si fa sentire di più. Tuttavia, dato che chiunque partecipa a un torneo del Tour maggiore non chiude mai la settimana coi conti in rosso, il rischio di finire per una sola volta per spendere più soldi di quanti se ne potrebbero guadagnare, per chi ha milioni sul conto in banca, è davvero un buon motivo per rinunciare a un Masters 1000?

La risposta dovrebbe essere no, anche perché basta superare un turno (o due) per garantirsi comunque denaro a sufficienza per coprire le spese e andare in attivo. Ma evidentemente i giocatori la vedono diversamente, abituati a essere ricoperti d’oro anche solo per scendere in campo. Una situazione che fa tornare in mente la parole di Andrey Rublev dello scorso novembre, quando il russo spiegò di non possedere ancora un appartamento, a causa degli eccessivi costi del tennis. Fare i conti in tasca agli altri non è elegante, ma la sua scheda sul sito ATP dice che in pochi anni di carriera ha già messo insieme quasi 8 milioni di dollari di soli montepremi, nel 2020 ne ha incassati più di due e quest’anno ha già superato il milione. Al tutto vanno aggiunti gli introiti delle sponsorizzazioni (che per un top-10 non sono per niente banali), e poi tolte le tasse e le spese per i viaggi, il team e mille altre cose. Sono tante, ma l’impressione è che con qualche milione di euro sul conto corrente un appartamento si riesca a comprare, anche senza dover passare dalla banca per un mutuo.

Viaggiare per il tennis, oggi, è un privilegio

Ciò che continua a emergere, reso ancora più evidente da una situazione nuova e particolare, è che i tennisti non siano affatto disposti a rinunciare ai loro privilegi, nemmeno nel bel mezzo di una pandemia. Sembrava del tutto esagerato il comportamento di Kiki Mladenovic all’ultimo Us Open, quando aveva paragonato a un incubo l’obbligo di dover vivere in una bolla per due settimane, invece da allora le lamentele dei tennisti si sono susseguite. Le più rumorose sono senza dubbio quelle di Benoit Paire, che ha spiegato come ormai perdere al primo turno non sia più una delusione ma una gioia, perché gli permette di uscire il prima possibile dalla bolla dei tornei. «Arrivo, prendo i soldi e vado al prossimo torneo, non ne vale la pena di lottare per prendere qualche dollari in più», ha detto il francese, che dalla ripresa del Tour dopo lo stop dello scorso anno ha superato due volte il primo turno in quattordici tornei. Per sua fortuna gli dà una mano il ranking biennale, altrimenti sarebbe ben lontano dal numero 31 del mondo e per guadagnare soldi dovrebbe impegnarsi per forza, perché avrebbe una classifica da tornei Challenger.

Il malcontento dei tennisti stride con l’impegno profuso dall’ATP nel portare avanti un circuito sparso da un continente all’altro, e che quindi comporta grandi difficoltà e richiede un’attenzione enorme. I protocolli sanitari costano, i biglietti non si possono vendere (salvo rare eccezioni) e i soldi non piovono dal cielo, dunque il taglio ai montepremi è la prima conseguenza della crisi, nonché una condizione obbligatoria per poter andare avanti. I giocatori gli sforzi li capiscono (o fanno finta di), tanto che praticamente tutti, a turno, hanno recitato la filastrocca del «grazie all’ATP che ci permette di giocare, grazie agli organizzatori etc etc», eppure non riescono comunque a guardare oltre il loro orticello. Se lo facessero, si accorgerebbero che oggi poter girare il mondo (e guadagnare soldi) per giocare a tennis è un privilegio doppio, anche con bolle, tamponi, quarantene e altri protocolli sanitari. In un mondo di persone che fanno quotidianamente varie rinunce, anche i divi con la racchetta devono fare la loro parte. Smettendo di farlo pesare.