di Carlotta Clerici – Foto Archivio Storico Il tennis Italiano
L’altro giorno è arrivato in casa nostra il fax di una rivista tedesca che chiedeva a papà un articolo su Suzanne Lenglen.
“Non glielo faccio – ha detto lui – ho già scritto una biografia della Lenglen. Adesso pare che l’anno prossimo rappresentino la mia commedia su di lei. Cosa vogliono ancora sapere?”.
Ho cercato invano di spiegare che quei poveri tedeschi non potevano essere al corrente delle sue attività di erede spirituale e biografo della Divina, ma, come ho visto che cominciava a innervosirsi, l’ho dirottato su un altro argomento. “Non puoi magari fargli qualcosa su un corrispettivo maschile di Suzanne? Ce ne sarà pure uno. A proposito, chi sarebbe?”.
Papà ha scosso la testa. “Grande come lei, altrettanto straordinario, nessuno. Ma se dovessi proprio scegliere, allora direi Tilden”.
– C’è una biografia su di lui?
“C’è un’autobiografia che vale pochissimo. Tilden era uno straordinario scrittore tecnico di tennis. Ha pubblicato una dozzina di libri, tra i quali Match Play and the Spin of the Ball sta tra i primi dieci di tutti i tempi. Ma la sua autobiografia – My Story – e qualche racconto decisamente autobiografico, che si trova in Glory’s Net o in The Phantom Drive, sono fasulli, sentimentalistici, autentica robaccia rosa. Per non parlare delle commedie e dei musical che lo sciagurato arrivò a finanziare, pur di salire sulla scena e, tra l’altro, a Broadway”.
– Ma è possibile che in un paese ad alta civiltà editoriale come gli Usa non ci sia niente su di lui?
“C’è, per nostra fortuna. Nel 1975, nel mensile Sports Illustrated, apparve una serie di articoli di Frank DeFord, secondo me il miglior Sportwriter americano. Investito da molte lettere e invocazioni, Frank si decise ad ampliare questi articoli e nacque così un libro, chiamato Big Bill Tilden, una delle pochissime biografie di tennisti degne di questo nome”.
– Biografia vera o romanzata?
“Biografia vera anche se non abbastanza. In realtà, Tilden trascorse una vita intrecciata non solo di omosessualità, ma anche di pedofilia. Su questo argomento, il buonissimo biografo è abbastanza reticente e una volta che gli comunicai certe confidenze di Giovannino Palmieri, che fece parte della troupe di professionisti guidata da Big Bill, scosse il capo per dirmi che su temi simili in America bisognava usare cautela e che, comunque, l’omosessualità non gli pareva determinante per vincere Wimbledon”.
– Aveva ragione DeFord?
“Difficile dire, perché Tilden fu incarcerato due volte, quanto ormai non aveva più l’aureola del campione a proteggerlo, ma vivacchiata a Hollywood, dando lezioni ai divi e accanendosi nell’insegnare il gioco ad angioletti di belle speranze che poi fallivano regolarmente”.
– Mi sembra divaghi un pochino…
[continua]
© 2010 “Il Tennis Italiano” – Tutti i diritti riservati
Pubblicato nel numero di dicembre 1987
– Mi sembra divaghi un pochino… Cosa ha fatto Tilden per passare alla storia del nostro sport?
“Molte cose. Per esempio è stato il campiione più lento ad affermarsi, dopo un inizio davvero mediocre. Nato nel 1893, lo si trova battuto battuto nel primo turno di Newport 1912 da un suo concittadino di Filadelfia, Wallace Johnson. Sarebbero passati anni di lavoro durissimo, prima che Bill ci riprovasse e raggiungesse la finale dei Campionati d’America nel 1918, per essere sconfitto da uno che gli faceva il serve and volley sul rovescio, tale Lindley Murray. Ma Tilden aveva troppo orgoglio e troppa intelligenza. L’inverno seguente lo passo sul campo coperto di un ricco signore, J.D.E. Jones, a Providence, a studiare un nuovo rovescio, che non soffrisse per una minorazione, la perdita di una falange del medio. E da quell’inverno divenne praticamente imbattibile. Di lì, iniziò la grande rivalità che trasformò il suo nome da Bill in Big Bill, il grande Bill, in opposizione a Little Bill Johnston. Una rivalità che condusse i due a sei finali dei Campionati americani in sette anni, cinque delle quali vinte da Tilden”.
– Sull’erba anche lì, come a Wimbledon?
“Sempre sull’erba. A Wimbledon, ci andò che già aveva 27 anni, per incontrarvi nel Challenge Round il detentore australiano, Gerald Patterson. Pattersonm era ancor più atletico di Bill, che già faceva un metro e ottantacinque. Vinse il primo set a botte di servizio, poi si ritrovò inghiottito da un tipo che sapeva fare tutto con infinite varianti”.
– E come mai un fenomeno simile, di Wimbledon ne vinse solo tre?
“Si viaggiava sui piroscafi a quei tempi. Come ebbe difeso il titolo l’anno seguente, contro il suo amico sudafricano Baby Norton, Big Bill dichiarò ai giornali che, se qualcuno voleva sfidarlo non aveva che da attraversare l’Atlantico”.
– E non ritornò più a Wimbledon?
“Ritornò l’anno in cui sono nato io: nel 1930, vincendo alla bella età di 37 anni. Una performance straordinaria, se pensi che, negli anni precedenti, Big Bill era stato circondato, e spesso battuto, dal gruppo dei Moschettieri francesi, da Lacoste e Cochet, ma anche da Borotra, l’uomo che detestava di più al mondo. Gli altri due, che dopo tutto gli avevano tolto il primato mondiale, non cessò invece di ammirarli. Nel corso della sconfitta contro Lacoste, la sua prima assoluta in Davis dopo 16 vittorie, Big Bill si sconciò un ginocchio, ma finì egualmente il match senza un lamento, una scusa. E quando fu poi battuto da Cochet dichiarò che quel piccolo francese giocava un tennis che lui non aveva mai immaginato. Grande classe”.
– Come è morto?
“Poverissimo, lui che era stato ricco. Solo, lui che era stato ricercato da tutti. Lo trovarono in una cametra d’affitto a Hollywood il mattino del sabato 6 giugno 1953. Sul letto c’era una valigia appena fatta, che conteneva tutti i suoi beni. Stava partendo per un torneo di professionisti. Aveva sessant’anni.”
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Pubblicato nel numero di dicembre 1987