A Doha, Matteo Berrettini ha commentato la squalifica di Sinner, ci ha parlato del nuovo corso con un team rinnovato e di Novak Djokovic, suo avversario di primo turno nel torneo del Qatar

foto Gabriele Seghizzi
Sabato a Doha si è vissuta una giornata surreale, dopo l’arrivo del comunicato che annunciava l’accordo fra Sinner e la Wada si è assistito ad un fuggi fuggi generale, reale e metaforico. Conferenze stampa annullate, nessuno o quasi disposto a commentare, a maneggiare in qualche modo la patata bollente. Anche Matteo Berrettini aveva preferito schivare i giornalisti italiani, rimandando l’appuntamento. Ieri, occhiali neri griffati dallo sponsor, Matteo è tornato quello di sempre: cordiale e disponibile ad una lunga chiacchierata.
Matteo, poco più di un anno fa era stato Jannik a offrirti la sua amicizia con la promessa di rivincere insieme la Coppa Davis. Ed è stato di parola. Oggi invece è lui che ha bisogno di sostegno…
«Ho sempre sostenuto Jannik, e sono convinto che la positività fosse il frutto di un errore. Mi dispiace per quello che è capitato, posso immaginare che per lui sia un momento molto difficile».
Vi siete parlati dopo l’annuncio della sospensione per tre mesi?
«No, ci siamo incrociati qui a Doha ma ora voglio rispettare il suo desiderio di riservatezza».
Come giudichi l’accordo con la Wada?
«Credo nello sport e nella nostra organizzazione. Non so che cosa sia successo fra la Wada e le altre sigle, non faccio l’avvocato, né l’avvocato del diavolo, non mi compete. Mi dispiace solo per un ragazzo che, come dimostrano le carte, è stato vittima di un errore. Ma Jannik è più forte di tutti noi, e quindi tornerà».
La responsabilità oggettiva è un principio giusto nel tennis?
«Giusto o sbagliato non lo so. Di sicuro è un argomento molto complesso. Dovremmo aprire un milione di parentesi… Quello che posso dire è che è difficile perché non sai mai che cosa può succedere. Se giochiamo in alcune nazioni l’Atp ci consiglia di evitare certi tipi di cibo, come la carne rossa, perché spesso viene trattata con steroidi. Da sempre c’è questa attenzione. Ma c’è un margine di imprevedibilità».
Nell’errore di cui parli è coinvolto Umberto Ferrara, l’ex preparatore di Sinner che oggi fa parte del tuo team. Una scelta che fa discutere la gente…
«Non credo che sia il mio ruolo rispondere alla gente. Quando scelgo un membro del mio team c’è sempre dietro un ragionamento. Ritengo Umberto un professionista a 360 gradi, come del resto ha dichiarato anche Jannik, privatamente e pubblicamente. E’ stato fatto un errore, nessuno voleva farlo, purtroppo qualcuno ne ha pagato le conseguenze, chi più chi meno. Ci sono sentenze che bisogna leggere».
Quando l’hai ingaggiato i fatti erano già noti…
«Quando ho parlato a Umberto ho pensato a lui come ad una persona che poteva aiutarmi nella mia crescita. A chi si sente stupito, stranito, arrabbiato, felice… Ho smesso di pensare tanto tempo fa. Se dovessi leggere ogni singola cosa che viene detta su di me, non reggerei il peso».
Ventotto anni, una classifica, in risalita, da n. 34 Atp: il ‘cantiere’ Berrettini a che punto è?
«Per me è un momento di transizione e costruzione. Dopo tanto tempo ho iniziato una stagione senza dover pensare al mio corpo, e paradossalmente mi fa strano. Posso finalmente pensare: ‘nei prossimi mesi devo giocare questi tornei’, piuttosto che: ‘speriamo di riuscire a giocare qualcosa’. Sono sempre stato il più duro di tutti con me stesso, ma è un’arma a doppio taglio. Sono riuscito a spingermi oltre i miei limiti, ma nei momenti di difficoltà tendo a buttarmi giù più del necessario. Quello che ora chiedo a me stesso è un po’ di pazienza, perché sto lavorando molto bene già dall’anno scorso, so che belle cose capiteranno. Nel tennis tutti tendiamo ad avere poca pazienza. Ma il cantiere sta funzionando bene».
Domani c’è l’ispettore Djokovic…
«Sarà durissima. Da quando abbiamo giocato contro l’ultima volta (Us Open 2021, ndr) ne sono successe di tutti i colori. Ma lui resta sempre Novak Djokovic. Sono contento di ritrovarmelo di fronte: un anno fa non sarei stato nella condizione, oggi mi sento in forma e in forza. Non ci ho mai vinto, speriamo sia la prima volta. E’ comunque di partite come queste che ho bisogno per andare avanti».
Dici Berrettini e il pensiero va a Wimbledon.
«Non sto aspettando l’erba. Cerco di fare bene tutte le settimane, anche se ci sono condizioni che mi piacciono di più. Piuttosto non vedo l’ora che arrivi la terra: non tanto per una questione di risultati ma per godermela, visto che negli ultimi anni non ho potuto farlo».
Come ti immagini fra cinque anni? Pensi mai alla persona che vorresti essere?
«Il tempo passa e per fortuna ci si evolve. Proprio ieri mi sono ricordato della prima volta che ho giocato qui, era il 2018 e ottenni la mia prima vittoria Atp…»
Contro Troicki..
«Sì, e ci trovammo nel tunnel per fare un’intervista… Sette anni fa, sono volati. Posso dirti che spero di rimanere attaccato a quello che sono. Le vittorie sono importanti, mi piace competere, togliermi soddisfazioni, ma ho imparato che se non stai bene con te stesso tutto diventa relativo. Vorrei essere visto come un ragazzo che si impegna ma che non si sente al di sopra o al di sotto di nessuno».
Compito non banale, per uno sportivo di successo.
«Se sei famoso, è inevitabile, cambia un po’ come ti guardano gli altri, come ti parlano. Cerco di non cambiare io, anche se capita di sentirsi stanco e nervoso. L’anno scorso, con tutto il percorso che ho fatto, credo di aver ritrovato anche me stesso».
A luglio saranno quattro anni dalla finale di Wimbledon: senti scattare l’orologio?
«Lo sento, l’orologio che ticchetta. A volte la prendo bene, altre penso che va veloce. Sono ancora giovane come persona, tennisticamente meno. Vincenzo Santopadre mi diceva che gli infortuni mi avrebbero allungato la carriera: ma secondo me sono diventati un po’ troppi e me l’hanno accorciata…. A volte ti rendi conto che recuperi più lentamente di un tempo, o che l’emozione di arrivare in un posto è diventata ormai una routine. Per questo è importante trovare stimoli non solo nei punti, nel ranking, ma anche dentro di te. Le emozioni sono la cosa più importante per me in questa fase della carriera».
Nei confronti di Sinner non tutti nel tennis hanno mostrato empatia. Durante le premiazioni tutti sembrano amici, si sprecano complimenti ed elogi, ma l’atteggiamento cambia in fretta. Sorpreso per i tanti attacchi a Jannik?
«Guarda, è molto semplice. Io mi sento amico di tutti, ma non ho migliori amici nel tennis. E non perché i colleghi mi stiano antipatici, ma perché gli amici veri te li fai da piccolo, nel corso di una vita al di fuori del tennis. Quando sei ai tornei costruisci la tua squadra. Poi, certo, con Simone Bolelli ho giocato la serie A, con Lorenzo Sonego e Andrea Vavassori siamo cresciuti insieme, giocando i campionati italiani di tutte le categorie, c’è un rapporto più intimo. Però nessuno di noi all’interno del circuito ha la persona da chiamare nel momento di difficoltà. Voglio dire: non è che Vavassori si lascia con la fidanzata e chiama me. Non succede. Sono amicizie di lavoro, diverse, e va bene così. Io del resto farei fatica a giocare contro mio fratello. Poi, certo, c’è anche la mancanza di rispetto, ma ciascuno è responsabile per se stesso e non ci posso fare nulla».
Arriverà un supercoach a fianco di Alessandro Bega?
«Con il team ci abbiamo pensato, e insieme abbiamo deciso che non è facile mettere insieme tutti i tasselli allo stesso momento. Dopo quindici anni passati con le stesse persone, ho cambiato tutto per una scelta di lavoro, e non mi sentivo di mettere troppa carne al fuoco. Anche perché stavo lavorando bene. Ho fiducia nel team, nessuno di noi è contrario ad aggiungere qualcuno, ma deve essere una scelta che viene da dentro, non voglio prendere qualcuno tanto per prenderlo. Ho sempre il supporto di Umberto Rianna, poi qui con me vedete tre persone ma dietro ce ne sono dieci, e certi equilibri sono complessi da rispettare. Specie per uno come me che non spegne mai la testa».
Per chiudere: sei stato al Quirinale e qualche anno fa a Sanremo, due ‘palcoscenici’ molto diversi: qual è stata l’emozione più forte?
«A Sanremo mi sono rivisto bambino, che guardavo il Festival in tv, e mi sono detto: be’, qualcosa l’hai fatta. Da una parte c’è stato l’abbraccio istituzionale, dall’altra un abbraccio popolare. Dell’udienza al Quirinale poi hanno saputo molti di meno, mentre davanti alla tv per Sanremo c’è tutta l’Italia. Sono due emozioni diverse».