In un momento di difficoltà per alcuni grandi nomi del tennis italiano, il nostro columnist ci fa riflettere sul significato dell’umiliazione e delle fragilità e su come queste possono incidere sulla crescita di ogni persona
Siamo alle porte della lunga stagione tennistica su terra rossa, e d’improvviso la nostra nouvelle vague italiana è in persistente difficoltà. Dall’inizio dell’anno il solo Sinner sfodera prestazioni all’altezza della sua fama. Ogni tanto assistiamo a qualche lampo di Sonego. Ma i due giovani campioni Lorenzo Musetti e Matteo Berrettini (quest’ultimo ormai ventisettenne, in realtà) continuano a subire sconfitte, rilasciando anche dichiarazioni un po’ sconfortate.
Che succede? Mi tornano in mente parole di Paolo di Tarso già citate di sfuggita in merito al crepuscolo di re Roger: “Quando sono debole, è allora che sono forte”. A onor del vero, l’Apostolo inserisce tale affermazione nel contesto di una sorta di “inno alla debolezza” radicato nella sua fede in Gesù Cristo: a dire che la potenza di Cristo non è oscurata, anzi è illuminata dalle fatiche quotidiane di chi cerca di credere in lui. Ma qui non si tratta di teologia, bensì di tornei interrotti sul nascere, di posizioni perse nel ranking, di delusioni patite. Dunque, quale insegnamento il Muse e il Berre possono trarre da questo periodo buio? Non voglio rubare il mestiere al mental coach di quest’ultimo, Stefano Massari, che sulla questione ha scritto un bel libro, O vinci o impari. Ma appunto, se posso permettermi, cosa imparare? Come trasformare l’attuale debolezza in forza?
Anzitutto facendo i conti con una verità insegnataci dalla grande tradizione spirituale, cristiana e non: la vera umiltà nasce dalle umiliazioni, dallo scorno, altrimenti è superbia mascherata. Difficile da sopportare, ma vero! Uno scrittore del IV secolo si è spinto fino a scrivere che “umile (humilis) è colui che si ricorda di essere uomo (homo)”, cioè fatto di terra (humus), aderente alla realtà. Dall’umiliazione, dalla fragilità e dalla debolezza si può uscire rinnovati, resi anche più forti. Segno di questo stato d’animo è la sana autoironia. Quella, per esempio, di cui diede prova lo stesso Berrettini quando, dopo una sconfitta bruciante subita da Federer agli ottavi di Wimbledon del 2019, stringendogli la mano a fine partita gli chiese se doveva pagargli la lezione. E infatti due anni dopo era lui in finale a Church Road. Ma guai a quei giovani che conoscono ascese senza ostacoli: quando cadono, più sono giunti in alto, più si fanno male… Nel tennis, per fortuna, ciò è quasi impossibile.
E se anche guardando le cose da questa prospettiva restasse (come immagino resti) una sensazione di scoramento, i due alfieri del tennis italiano – e noi con loro – potrebbero ricordarsi della frase di Samuel Beckett che Stan the Man, uno che ha pur sempre vinto tre Slam nell’era di Roger-Rafa-Nole, si è tatuato sul braccio sinistro: “Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better”. “Hai sempre provato. Hai sempre fallito. Non importa. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio”. Non ci si lasci ingannare dalla prosa poetica di queste frasi martellanti come un dritto di Matteo. No, questa è mera adesione alla realtà. Non ci si pensa infatti mai abbastanza, ma nel tennis anche i migliori subiscono la media di una sconfitta a torneo, spesso ogni settimana: uno solo arriva fino alla fine, fino ad alzare il trofeo!
Non intendo consolare nessuno né dire di aver capito le parole di Paolo, ai miei occhi tra le più enigmatiche dell’intera Bibbia. Ma forse, in un mondo (tennistico e non solo) in cui prevale il culto della prestazione vincente, l’esperienza della debolezza può costituire una possibilità di trasformazione che si incide nella nostra carne. Poi, certo, il talento, unito al duro lavoro, tornerà a manifestarsi e a “pagare”. Ma dopo il fallimento, e dopo aver sperimentato che a ogni giorno basta la sua pena, non saremo più gli stessi. Potrebbe aprirsi un nuovo e inatteso orizzonte, entro il quale collocare anche le vittorie. “O desiderabile debolezza!”, ha scritto qualcuno. Giungeremo mai a capirlo, immersi nelle nostre benedette fatiche esistenziali?