Andy Murray imita coach Lendl e vince uno Slam alla quinta finale. Per riuscirci si è sciroppato cinque ore di sciabolate contro Djokovic. Ma adesso la sua carriera può svoltare.
Murray non dimentica di mandare un pensiero lassù.
Nemmeno nel momento più bello
Di Riccardo Bisti – 11 settembre 2012
Dopo il successo al Roland Garros 1984, Ivan Lendl incontrò Adriano Panatta. Ci teneva talmente tanto da rincorrerlo per la strada. “Adesso anche tu devi chiamarmi Signor Lendl” gli disse. “Benvenuto nel Club, Mister Lendl” rispose Adriano, ripetendo quello che gli disse otto anni prima Arthur Ashe, dopo la vittoria al Roland Garros. Il “Club”, quello con la C maiuscola, comprende i vincitori Slam. Lendl impazziva all'idea di non esserci, anche perché negli spogliatoi era stato preso di mira da Ashe e dallo stesso Panatta: “Chi non ha vinto uno Slam ci deve chiamare ‘Signor Ashe’, “Signor Panatta’, ecc…”. Ha ingoiato per anni, fino a quella rincorsa. Ci prese gusto e ne vinse altri sette, molti di più rispetto ai due aguzzini. Oggi, dopo 15 anni di oblio, Lendl è l’allenatore di Andy Murray. Ed è riuscito in un’impresa forse ancor più difficile: far vincere uno Slam al suo allievo in piena epoca Federer-Nadal-Djokovic. Murray era la gamba zoppa. L’invenzione giornalistica dei “Fab Four” si era accartocciata su un banale “Big Three”, da cui era escluso. E allora si è rivolto proprio a Lendl. “Ha vissuto gli stessi drammi, poi ce l’ha fatta. Magari può darmi una mano”. Ivan il Terribile era l’uomo giusto. Andy on sapeva quanto avesse penato in uno spogliatoio gonfio di “figli di…”. Lui aveva il problema opposto: il buonismo, gli sguardi compassionevoli. “Prima o poi ne vincerai uno”. E intanto restava sempre indietro. C’era andato vicino in quattro occasioni. Ma Federer (tre volte) e Djokovic (una) lo avevano rispedito a Dunblane con il solito, beffardo, “Prima o poi ce la farai”. Lui schiumava rabbia e dolore, mischiando lacrime ad autoinsulti sul genere trash.
Ma il 10 settembre 2012, un faticoso 7-6 7-5 2-6 3-6 6-2 contro l’amico (sincero) Djokovic gli ha tolto un peso. Lo Us Open è di Murray, la Gran Bretagna è in festa, la Scozia è in delirio. Sapete una cosa? Lo scozzese ha centrato l’obiettivo nello Slam giocato peggio. A parte gli ottavi contro Raonic, non aveva entusiasmato. Feliciano Lopez, Marin Cilic e Tomas Berdych lo avevano messo alle corde. Il croato è stato avanti 6-3 5-1 prima di suicidarsi, il ceco è stato ad un passo dal quinto set (e forse sarebbe stato favorito). Ma era destino. Il destino gli ha tolto di mezzo Nadal a bocce ferme e Federer nei quarti, lasciandogli il solo Djokovic, l’unico verso cui non nutre complessi di inferiorità. E infatti è sceso in campo tranquillo, nonostante il forte vento che ha accompagnato (e condizionato) buona parte della finale. Era destino, perché per una volta gli è andato tutto bene. Ha vinto due set (il primo e il secondo) quando avrebbe potuto perderli entrambi. In altri tempi li avrebbe persi. Nel primo (durato 87 minuti, comprensivi di uno scambio da 54 colpi!) è stato sotto 4-2 e ha avuto bisogno di sei setpoint prima di aggiudicarsi 12-10 il tie-break. Un bel servizio vincente ha scacciato i fantasmi dei punti precedenti, segnati da rovesci in rete, pallonetti fuori misura, dritti steccati ed ace del serbo. Era destino, perché ha vinto il secondo set quando l’inerzia era tutta per Djokovic. Avanti 4-0, si è fatto risucchiare fino al 5-5. Eppure l’ha portata a casa grazie a un break nel dodicesimo game, sigillato da due clamorosi errori di Djokovic: uno smash in corridoio sul 15-30, un dritto anomalo fuori di un dito sul setpoint. Colpi che 12 mesi fa sarebbero rimasti in campo, anzi, sono rimasti in campo (vedi il matchpoint annullato a Federer con quell’indimenticabile risposta di dritto).
Djokovic è un grande campione. Lo ha dimostrato rimettendo in piedi una partita durissima sul piano mentale. Aveva perso due set al fotofinish, ma è tornato in campo come se niente fosse. Nel secondo game ha vinto un punto (chiuso da una bella volèe) che gli ha dato la carica. Murray ha iniziato a pensare troppo, a sentire le vertigini per un traguardo finalmente a portata di mano. Aveva la bandiera britannica in mano e l’Everest-Slam era ad un passo, 76 anni dopo l’ultimo successo di Fred Perry. Mentre si perdeva in questi ragionamenti, Djokovic dominava il terzo e prendeva un break nel quarto. Lo teneva con le unghie in uno spettacolare sesto game, nonostante Murray abbia vinto uno scambio da urlo, terminato con Djokovic al tappeto (sul serio, non metaforicamente). Tenuto quello, si è preso un altro break ed ha allungato la guerriglia al quinto, quando erano passate oltre 4 ore dal primo quindici. Per un attimo, Murray ha avuto paura. Alla quinta finale, Lendl vinse rimontando due set di svantaggio. Lui rischiava di perdere dopo averne bruciati due di vantaggio. Dal canto suo, Djokovic ha sognato di emulare Pancho Gonzales, l’ultimo a rimontare due set nella finale di questo torneo. Era il 1949, vittima Frederick Schroeder. Ma era destino. Perché il break spacca-partita è arrivato con un punto casuale. Sulla palla break, un rovescio slice di Murray ha superato di un soffio la rete, cogliendo di sorpresa un Djokovic che aveva battezzato la palla sul nastro. Errore mortale. Nel game successivo, Murray saliva 2-0 al termine di un altro scambio gladiatorio. E urlava “Come on!!! Come on!!!” a pieni polmoni, come un guerriero che si alimenta con l’urlo della folla. Sullo slancio, prendeva un altro break e volava 3-0 e servizio. Ma Djokovic ha continuato a lottare, dimezzando lo svantaggio e portandosi sul 2-3.
Ma al momento di alzarsi sui pedali, il serbo ha improvvisamente finito la benzina. Negli ultimi game è sparito dal campo, incassando un parziale di 12-2. Neanche l’intervento del fisioterapista sul 5-2 per una contrattura alla coscia destra è servito per rimetterlo in sesto. Mentre si faceva trattare, Djokovic si è preso i fischi del pubblico. La gente di Flushing pensava che fosse una pausa tattica. Lui ha risposto applaudendo ironicamente. Non cambia nulla: Murray ha tenuto il servizio e ha potuto gioire dopo 4 ore e 54 minuti, un minuto meno rispetto alla finale del 1988, vinta da Mats Wilander proprio su Ivan Lendl. Un cantastorie da strapazzo potrebbe scrivere che non ha voluto togliere il record al suo maestro. La verità è che per lui è stato un sollievo. Non ha urlato, non ha strillato. Quando Djokovic ha sparato fuori l’ultima risposta, ha sibilato “Come on!” come se fosse un punto qualsiasi. Poi ha realizzato, e si è inginocchiato come prevede la legge non scritta degli Slam. In quel momento piantava la bandiera britannica lassù, nel Club con la C maiuscola. “Non so come ho fatto – ha detto a Mary Carillo, ex giocatrice e oggi ottima cronista – nel terzo e nel quarto era dura sul piano mentale. Lui mi metteva pressione, sapevo che avrebbe lottato fino alla fine. Non so come ho fatto a vincere”. Parole confuse, di circostanza. Non vedeva l’ora che Jon Vegosen, presidente USTA, gli consegnasse il trofeo. Il momento è arrivato, ed Andy si è messo alle spalle critiche ed etichette scomode. Quando ha vinto le Olimpiadi sembrava più emozionato, ma questo successo vale una carriera. Non è che, stappata la bottiglia, ha intenzione di imitare Lendl e spruzzare successi da tutte le parti? Una cosa è certa: dopo averlo abbracciato, negli spogliatoi di Flushing, Ivan Lendl gli sussurrerà nell’orecchio: “Benvenuto nel Club, Mister Murray”. Andy non capirà, e allora Ivan sorriderà.
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