Una bella vittoria a Belgrado, contro l’idolo di casa Djokovic, per un signor giocatore che ha già undici titoli in bacheca. Il suo difetto? Poche variazioni. Potrebbe ispirarsi alle avventure del personaggio di Mark Twain che un po’ gli assomiglia
Non fosse per l’età, sarebbe un perfetto adolescente per la penna di Mark Twain. Magari un altro Tom Sawyer ,col viso da birba e il gusto per le peripezie. Già, perché, somiglianze a parte, nel tennis di Andrey Rublev l’avventura abbonda con quel vizio di giocare tutto a manetta ricorrendo spesso a un’atomica per ammazzare un sorcio. Lontano da mezze misure, il russo nutre il vezzo di lanciarsi come un fulmine sulla palla con l’idea di farla pezzi, qualsiasi sia la situazione e chiunque ci sia oltre la rete. Una visione tattica che raramente sfora dal classico diagonale e lungolinea giocati a tutta birra, fatta eccezione per sporadiche smorzate e spericolati inside out concepiti lasciando troppo campo. Tutto si svolge a testa bassa. Tanto bassa da sembrare qualche volta un tennis giocato a occhi chiusi, spesso fuori giri, ricco di traiettorie a mezz’aria che, seppure violente, si offrono a facile ribattuta. Sempre che buone gambe avversarie riescano raggiungerla.
Oddio, ma non vorrei svendere il buon Andrey per una mezza calza priva di spessore, giacché parliamo comunque di un super giocatore. Che sarebbe ancora più super, tuttavia, se spezzasse il ritmo con maggiore frequenza e premiasse la pressione da fondo con maggiori incursioni a rete, magari in controtempo. Nella finale di Belgrado è arrivato anche qualche attacco di ottima fattura coronato da splendide volée, segno evidente che tanta roba è già nelle sue corde. Il resto del potenziale è affidato a una stazza che, tra nervi e muscoli, sfiora l’uno e novanta passando per un bacino basso, ideale per farne uno dei tennisti più reattivi del circuito. Undici titoli in bacheca sono già un buon bottino per un giocatore di venticinque anni in cerca di gloria, ma c’è spazio per fare meglio. Un bel match, quello della finale, contro un Djiokovic ancora in cerca di sé e contro un pubblico superbo che avrebbe fatto carte false pur di vedere l’amato figlio sul podio più alto. La prova di Rublev, tuttavia, avrebbe meritato una nota di merito da parte di Mark Twain e naturalmente una tirata d’orecchi della zia Polly.