L’INTERVISTA – Perde sempre ma non si abbatte: Enrico Becuzzi ha quasi 40 anni ma gira il mondo a caccia a un punto ATP. “Tutto questo dà un senso a quello che faccio. Ce la posso fare”.
Enrico Becuzzi compirà 40 anni il prossimo 23 marzo
Di Riccardo Bisti – 15 febbraio 2013
“Oggi si sa tutto di tutti, anche la percentuale di punti che vinci in risposta al servizio. Per questo i miei risultati sono sotto l’occhio dei riflettori. Se avessi giocato 15-20 anni fa, nessuno si sarebbe accorto di me”. Parola di Enrico Becuzzi, ancora indeciso se ritenersi fortunato o meno di giocare nell’era di internet. A modo suo, è un personaggio d’altri tempi. A quasi 40 anni, lotta per un’utopia: conquistare un punto ATP in singolare. Per la verità, il toscano (nato a Pisa ma residente in provincia di Livorno) ha avuto una classifica nel 2003, quando le sconfitte al primo turno davano ancora punti. Perse 6-0 6-0 da Konstantinos Economidis al challenger di Sofia (dove gli avevano dato una wild card) e per un anno c’è stato anche lui. Adesso le regole sono cambiate: per entrare nel ranking devi vincere almeno una partita in un tabellone principale. Enrico le prova tutte: nel 2012 ha fatto il giro del mondo (Colombia, Russia, Ecuador, Cina, Turchia), ma non c’è stato nulla da fare. Ha vinto solo un match, nelle qualificazioni di Lermontov, battendo 6-0 6-0 il russo Dmitry Strokan. Per il resto solo sconfitte, quasi tutte pesanti. Il problema di Becuzzi è (anche) l’età: difficile pensare di migliorare a 40 anni. Ne è consapevole, ma continua a crederci. Soprattutto da quando si allena sui campi della COOP Livorno, sotto la guida di Claudio Galoppini e il supporto del preparatore atletico Stefano Giovannini. Non dimentica mai di ringraziarli, così come ringrazia Paolo Lorenzi, che lo ha spinto a provarci. E allora Enrico prosegue nel suo sogno: vincere qualche partita tra i professionisti e conquistare l’agognato punto ATP. Lui ci crede, con una fede quasi mistica e per questo meritevole di rispetto. In barba ai tanti detrattori, che lo invitano a lasciar perdere e lo deridono via internet dopo ogni sconfitta.
Sei sulla bocca di tutti, ma nessuno ti conosce davvero. Chi è Enrico Becuzzi?
E’ una storia lunga, anche perché a marzo compio 40 anni. Ho iniziato a giocare a 9 anni: da under 16 e under 18 ho giocato alcuni tornei internazionali, ma non ho mai interrotto la scuola per dedicarmi al tennis. Anzi, nell’anno della maturità (ho preso il diplona di geometra) non ho quasi mai giocato. Mi sono iscritto all’Università, ma non è durata molto perché avevo il chiodo fisso del tennis. Nel 1993 mi sono spostato alle Pleiadi di Moncalieri, allora cuore pulsante del tennis italiano. C’erano tutti i più forti: Camporese, Caratti, Pescosolido, Castrichella, Beraldo. Sono rimasto lì un paio d’anni, poi sono tornato a casa. Alternavo l’attività nazionale al lavoro. All’età di 22 anni ho giocato i primi satelliti, ma era dura perché c’era gente più giovane già più abituata di me. Nel 1998 ho iniziato ad allenarmi con alcuni argentini (Fracassi, Alvarez, Tenconi): facevamo base a Grosseto e sono diventato seconda categoria. Tuttavia, a me interessava l’attività internazionale. Volevo misurarmi con i più forti. Nel 2002 mi sono dedicato per un paio d’anni ai tornei futures, poi ho lasciato perdere fino al 2008. Quell’anno Paolo Lorenzi è venuto ad allenarsi a Livorno e mi ha convinto a seguirlo in qualche challenger. L’aiuto di Paolo mi ha consentito di inserirmi in un tennis di livello ancora più alto. Grazie a lui sono migliorato come atteggiamento e livello di gioco, al di là dei risultati. E’ difficile migliorare alla mia età, perché a 35 anni gli automatismi sono ben diversi che a 18. Ad ogni modo ho deciso di provarci con i challenger: in doppio ho fatto qualcosa, in singolare è molto più difficile.
Se lo domandano in tanti: chi te lo fa fare?
Nessuno. Non me l’ha ordinato il dottore. Me lo sono imposto da solo. Fare attività internazionale è l’unico modo per dare un senso a quello che ho fatto in tutti questi anni. Ottenere risultati è difficile, quasi impossibile. Ma è anche molto stimolante. Ho molta più soddisfazione così piuttosto che giocare i tornei nazionali, la cui formula è decisamente peggiorata. Non è giusto che le prime teste di serie siano messe 3-4 turni avanti rispetto a tutti gli altri.
Ma conduci una vita da professionista?
Ci provo, anche se mi dedico ad altre cose. Comunque faccio 3-4 allenamenti al giorno, considerando anche atletica e palestra. In particolare, cerco di lavorare molto nelle settimane in cui non gioco tornei. Ho un problema in più: non avendo classifica, non posso fare una programmazione vera e propria. Mi alleno, mi iscrivo a tutti i tornei e vedo come si sviluppano le entry list. Quest’anno ho provato la trasferta in Australia. A Noumea avevo grandi aspettative, ma è andata male (ha perso 6-0 6-0 contro N’Godrela, ndr). Non ero al top fisicamente, è difficile giocare in Nuova Caledonia anche a causa dell’umidità. Giocare i tornei in corsa, senza una specifica preparazione, alla lunga si paga. Ad Auckland è andata meglio (1-6 1-6 contro Sebastian Lavie, n 791 ATP) , è stata la mia prima esperienza in un torneo ATP. A ben vedere, non ho perso contro l’ultimo arrivato. Tuttavia – con rammarico – non posso definirmi un professionista. Secondo me ci si può considerare tale solo se entri tra i primi 300-400. Oltre a giocare a tennis, comunque, mi occupo anche degli interessi di famiglia.
In tanti si domandano come fai a mantenerti, visto che incassi un prize money irrisorio (in tutta la carriera, Becuzzi ha intascato 5.738 dollari).
Gioco i tornei quando è possibile. Non faccio scelte scriteriate, andando a giocare ai quattro angoli del globo senza alcun tipo ritorno. Giocando anche il doppio, ho spesso vitto e alloggio pagati. L’unica spesa davvero importante sono i biglietti aerei. Tuttavia, credetemi, non faccio niente di pazzo. Cerco di far quadrare i conti. A ben vedere, ho viaggiato tanto soltanto nel 2012, ma ero spesso al seguito di Paolo Lorenzi.
Come sarà il tuo futuro?
Cerco di non guardare troppo in là. Vorrei vivere il più possibile il presente, senza pensare a quello che verrà. Se lo facessi, non riuscirei a concentrarmi. Credo che il tennis continuerà ad avere un ruolo nella mia vita, ma non so ancora quale. Non sarà un ruolo classico, mi aspetto qualcosa di particolare. Allenatore? Non so, ho bisogno di situazioni stimolanti, altrimenti lascio perdere.
L’episodio più curioso che ti è capitato in giro per il mondo?
Più che un episodio, è stata una situazione. Ero appena tornato dall’Ecuador, e quattro giorni dopo sono ripartito per la Cina perché ero entrato nel tabellone principale del challenger di Pingguo. Sono partito in fretta in furia, senza il visto d’ingresso: me lo sono procurato a Hong Kong. Lo stesso giochino non mi è riuscito per il Masters 1000 di Shanghai: ero entrato nelle qualificazioni, ma ho trovato tutti i consolati chiusi e non sono potuto partire. Ho un discreto rapporto con tutti, non ho la sensazione di essere malvisto per le mie scelte.
Quanto pensi di poter ancora migliorare? Se facessi attività in Italia, quale sarebbe la tua classifica nazionale?
Dipende dall’intensità che riesco a mettere negli allenamenti. Se ce la faccio, posso crescere ancora un po’. Il problema è trasferire tutto questo in partita. In allenamento arrivano buone indicazioni, ma è difficile esprimerle in torneo. Il salto di qualità deve essere soprattutto mentale. Ho già progredito, perché come atteggiamento sono migliorato rispetto a qualche anno fa. In altre parole, devo alzare il livello non tanto come intensità ma come solidità mentale. In Italia sono retrocesso da 2.8 a 3.1, ma nel 2012 ho giocato soltanto due tornei Open. Non mi interessano: il mio unico punto di riferimento sono i tornei ATP. La classifica italiana non mi interessa. Spesso i tornei Open sono ben organizzati, i circoli fanno sforzi importanti, ma il problema è la formula. Non tutti partono dal primo turno e si creano situazioni di disparità tecnica notevoli. Non è giusto che le teste di serie partano cinque turni avanti. Il regolamento andrebbe rivisto.
Sinceramente: credi di avere le qualità per conquistare ‘sto benedetto punto ATP?
Ho tutte le potenzialità per riuscirci: il problema è trasferirle sul campo. Se non pensassi di potercela fare, non farei tutto questo. Ci credo davvero. Lo ammetto, ci sono dei momenti in cui vado giù psicologicamente, ma sono sempre riuscito a riprendermi.
Enrico, sei felice della vita che fai?
Vado ad alti e bassi. Ci sono momenti in cui sono molto felice. Ma ne arrivano altri in cui, avendo l’età che ho, non ho la spensieratezza di un 20enne.
Immaginandoti tra 20 anni, pensi che avrai rimpianti o rimorsi?
Qualche rimpianto, soprattutto per la mia crescita tennistica. Prima dei 20 anni – per colpe non mie – non ho avuto la possibilità di crescere tecnicamente e fisicamente. Dopo ho cercato di colmare il divario, ma non è stato facile. Dopo il periodo alle Pleiadi ho trascorso quattro anni in cui ho lavorato e giocato pochissimo. Sono stati anni decisivi in cui non ho vissuto situazioni importanti, tipo quella che ho trovato a Livorno. Diciamo che la mia carriera è andata molto a strappi. In quella decade, tra i 20 e i 30 anni di età, avrei potuto fare qualcosa di più.
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