Murray mette a nudo l'inutilità delle conferenze stampa. Ci sono sempre le stesse risposte alle stesse domande (insulse). Aboliamole, ma dateci le interviste senza cani da guardia.


Andy Murray in conferenza stampa al Queen's

Di Federico Ferrero – 16 giugno 2012


Certo, né Austin né il suo libro sono casi unici. È difficile non notare come questa stessa aria di banalità robotica soffonde non solo il genere dell’autobiografia sportiva ma anche i rituali mediatici in cui si chiede a un grande atleta di descrivere il contenuto e il significato della sua téchne. Ascoltate qualsiasi intervista televisiva postgara:
– Kenny, cos’hai provato mentre segnavi il punto della vittoria con quella sensazionale, risicatissima presa in area di meta con assolutamente zero, e dico zero secondi rimasti?
– Bè, Frank, mi sono sentito solo molto soddisfatto. Tutti noi abbiamo lavorato sodo e siamo cresciuti parecchio come squadra, ed è sempre bello quando senti di poter dare una mano.

(David Foster Wallace, Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore – Considera l’aragosta, Einaudi 2006)
 
Andy Murray si è comportato in maniera odiosa, al Roland Garros. Eppure, vivaddio, dimenticandoci del suo mal di schiena intermittente (l'angelo vendicatore Mahut ha sistemato le cose al Queen's, e comunque mi piace pensarla così) gli dobbiamo tributare un grazie gonfio di gratitudine. Nella sua rubrica giornaliera sull'Équipe, grottescamente intitolata Dandy Murray (forse era una presa in giro dei parigini: le sue mise somigliano a quelle di un figlio di Johhny Rotten, non a quelle di Oscar Wilde) Murray si è finalmente sbottonato sospendendo il filtro democristiano di tutti i campioni sulle conferenze stampa. Alleluja. Secondo lui, sappiate che:
 
A) ne deve fare troppe, un centinaio l'anno. E dopo tutte le partite negli Slam, perse o vinte che siano. Troppe. Diventa, dice il Dandy, parte del mestiere presentarsi ai giornalisti. Un sacrificio accettabile in un mare di privilegi ma non così leggero come potrebbe apparire. Quindi, per lui, parlare alla stampa è puramente un male necessario. Opinione largamente condivisa tra i giocatori, peraltro. Se diventassero facoltative, le conferenze andrebbero deserte.
 
B) La conferenza non serve a un tubo. Era ora che qualcuno di quelli col microfono davanti alla faccia lo ammettesse. Se Murray analizza il match, spiega, lo fa con il suo team: Lendl, Green, Vallverdu, Ireland e compagnia. È con loro che discute di condizioni fisiche, rendimento dei colpi, scelte corrette, errori. «Non so se alcuni giocatori usino la conferenza per sfogarsi o per cercare di capire quello che è successo durante la partita, però io so di non essere uno di quelli». Uh, sapessi quanto sei in buona compagnia, caro Murray: non parlo di infortuni, non parlo di soldi, non parlo di questo, non discuto quello, no comment sulla polemica: avete imparato a essere più refrattari di Enrico Cuccia e più banali di Al Bano. Le rarissime occasioni in cui un giocatore abituato alla farsa con la stampa dimentica di indossare la maschera di Arlecchino è quando ha perso le staffe. Come Nadal e Djokovic a Madrid: perdono partite da vincere, vanno in sala stampa e minacciano aggrottando le sopracciglia di non ripresentarsi mai più (l'Atp, guarda caso, fa lo gnorri e non riporta le uniche dichiarazioni interessanti della settimana. Questo per dire che i giornalisti servono ancora a qualcosa, sennò tanto varrebbe aspettare le veline orwelliane di atpworldtour.com).
 
C) Il livello delle risposte è infimo, perché «da ragazzino solevo dire un po' tutto quello che mi passava per la testa e il giorno dopo mi accorgevo che la stampa aveva creato un putiferio. Quindi crescendo ho imparato a gestire le mie risposte e a non urtare nessuno». L'Atp – questo lo aggiungo io – ha inventato una cosa che ha il coraggio di chiamare Università: un fine settimana di lezioni nell'hotel con SPA Mayfair, Miami, per insegnare ai giocatori, tra un hammam e un brunch ipocalorico, a non mettersi le dita nel naso mentre rispondono ai giornalisti, a evitare le (pochissime) insidie non fermate per conto loro dalle maglie degli addetti stampa del sindacato, a ringraziare per bene gli sponsor e a non farsi fregare troppo dagli agenti. Due giorni, tutti laureati in andreottismo.
 
D)
Le risposte fanno schifo perché solitamente le domande dei giornalisti fanno schifo. Murray si sente chiedere come sta, come è andata la partita, se è fiducioso, se si sente di poter battere Nadal, se Roma è la città più bella del mondo, cose così. La risposta alla miseria dei cronisti ha lo stesso tono. E parte, monotonale, col pilota automatico: sono fiducioso – penso partita per partita – yeah, ho giocato bene e sono soddisfatto – è un avversario difficile – sto lavorando molto – devo migliorare – è uno dei miei tornei preferiti – ora levatevi di torno e andate a scrivere le vostre idiozie, che devo ancora andarmene di qui e cenare (questo non lo dicono, lo pensano come tacciono tutto ciò che potrebbe creare problemi al Tour: giorni fa ho parlato con un professionista che ha giudicato ridicolo il servizio di trasporto e la prenotazione campi di allenamento a Roma: secondo lui è un pensiero comune tra i frequentatori del torneo. Secondo voi lo ripeterebbe mai in pubblico?)
 
La risposta a Murray è una sola. Basta conferenze stampa. Non le pretendiamo più, siete liberi. Non andiamoci, se le organizzano (lo so, continueranno ad affollarle tutti quanti perché il giornale vuole una frase, anche “mi piace la pasta” se è della Sharapova, e poi l'ego di certi cronisti sportivi è pari alla capacità polmonare di Rafa, sicché non sono le risposte che contano ma le loro domande). Però, in cambio, vogliamo interviste. Senza cani da guardia al seguito. Libertà di domanda: altrimenti che ci stiamo a fare? Diventerebbe un mestiere per pochi, dite voi? Pazienza: meglio una chiacchierata ricca di sostanza o dieci commedie col canovaccio scritto dagli autori del festival di Sanremo?
 
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