La sconfitta contro gli Stati Uniti ha chiuso il capitanato di Guy Forget. In oltre 10 anni ha vinto una sola Davis, ma avrebbe meritato di più. L'unico vero errore lo ha commesso a Belgrado.
Il saluto di Guy Forget dopo la sconfitta di Monte Carlo

Di Federico Ferrero – 15 aprile 2012


Colpa di Guy? Direi di no. Certo, è un peccato che Forget lasci la panchina di Davis così, con una sconfitta inattesa (ma davvero?), qualche rimpianto e almeno un’Insalatiera in meno rispetto al dovuto. Ma non credo si possa sostenere che abbia sbagliato a ospitare gli States sul lento di Monte Carlo.
 
Forget è stato un capitano modello. Elegante, educato, rispettato.
La Davis, da giocatore, la vinse nel 1991 a Lione, in un irripetibile weekend di tennis stellare, suo e dell’altro flashy lefty Henri Leconte, contro la spocchia di Agassi e del capitano Tom Gorman (non tanto di Sampras, che nella sua purtroppo mediocre biografia A champion’s mind ricorda l’episodio tra il sarcasmo e il terrore: «Ero la persona sbagliata per il lavoro sbagliato, Gorman non lo capì»; Pete, ai tempi un esordiente, racconta dell’atmosfera insopportabilmente carica di aspettative per una competizione che, confessa, non gli interessò quasi mai granché, pur riconoscendone il carisma, e della sensazione di non saper gestire né la tensione né l’atteggiamento del pubblico, naturalmente – ma per lui curiosamente – ostile[1]).
 
Nel 1999 Guy condusse subito la Francia, rimasta orfana di capitan Noah, alla finale, a tre anni dal successo miracoloso di Boetsch su Kulti, a Malmoe. Scelse la terra indoor di Nizza per ospitare l’Australia di Hewitt, Philippoussis e dei Woodies. Non fu sua responsabilità se Grosjean e Pioline furono presi a cannonate dal giovane Scud. La seconda sua finale contro l’Australia, nel 2001, fu un capolavoro semplificato dai pasticci aussie: a Melbourne Park (su giocava sull’erba, attenzione, non sul cemento) il capitano John Fitzgerald contava sul numero uno del mondo Lleyton Hewitt, sul numero 7 Pat Rafter e su Todd Woodbridge, considerato il miglior doppista destro dell’era Open. Forget rispose schierando, con coraggio, Picasso Escudé in singolare. Fitzgerald ebbe la bella pensata di usare, per il doppio, Hewitt e Rafter invece di Arthurs e Woodbridge. I due persero contro Pioline e Santoro, Pat si infortunò alla spalla ed Escudé vinse il singolare decisivo contro la riserva Wayne Arthurs.
 
La finale dell’anno successivo, al Palais Omnisports di Bercy, fu una tragedia nazionale e personale per un giocatore che non si riprese mai del tutto da quel weekend, Paulo Mathieu (oggi ha trent’anni, una sfilza di ospedalizzazioni quasi incredibile e una wildcard a Monte Carlo: in bocca al lupo!). Paul-Henri subì, più che la rimonta di Youzhny, il terrore di vincere la Coppa. Avanti sue set a zero, 4-2 nel quarto non resse. Sul due pari, la domenica, tutti pensavano che la Francia avrebbe vinto un’altra Davis. Tutti, Safin e Kafelnikov compresi.
 
Forget ha riportato la Francia in finale due anni fa, e lì qualcosa di sbagliato è effettivamente successo. Dopo aver dato 5-0 alla Spagna e all’Argentina, la finale con la Serbia poteva essere gestita diversamente. Sì che Djokovic era all’inizio della sua striscia vincente (interrotta, dal dicembre di quell’anno, nella semifinale di Parigi 2011 contro Federer); però, sul due pari, Guy non ebbe il coraggio di ritentare la carta Simon (che aveva preso tre set a zero contro Nole il venerdì) e provò il jolly schierando Michael Llodra. Piccolo problema: la superficie era lenta, le palle pure. Llodra aveva giocato alla grande in quelle settimane (ricordate? Semifinale a Parigi Bercy con Soderling, con match point sprecato, trionfi su Djokovic e Davydenko) ma su un terreno extraveloce. Contro Troicki, carico come una molla nella Belgrade Arena, Simon avrebbe potuto vincere. Anzi, lo aveva già fatto quattro volte in quattro sfide. Lodra no, e lo si capì dopo pochi giochi.
 
L’avventura di Guy non è terminata con un’altra finale. Ma è difficile fargli una grave colpa per la scelta di terreno e giocatori, la scorsa settimana, contro gli Stati Uniti. Se Fish avesse giocato si sarebbe trovato sul suo terreno sfavorito. Certo: a ben vedere, il valore di Long John Isner sul rosso non si è scoperto con i suoi successi su Simon e Tsonga al Country Club di Monte Carlo [2]. Ma accoglierlo su un terreno più veloce non avrebbe facilitato la vita a Tsonga e Simon.
 
Lascia la Davis, insomma, un signor capitano.

[1] Interessante ricordare due particolarità di quella finale, raccontate da Pete. La prima è che, la notte della domenica, prima di ripartire, si svegliò in piena notte urlando «Go USA!». Un tardivo e subconscio tentativo di reagire alla pressione psicologica che per tre giorni lo aveva soggiogato allo Stade Gerland. La seconda cosa, che finì per influire parecchio sul suo tennis, riguarda quello che di lì a poco sarebbe diventato il coach di Pete, Tim Gullikson. Gullikson guardò le partite in tv e, quando diventò il suo allenatore, gli ricordò le disfatte contro Leconte e Forget notando che si sistemava troppo verso il centro a rispondere contro i mancini, soprattutto da sinistra. Detto fatto, Sampras cambiò posizione e, soggiunge nella biografia, probabilmente questo diede una svolta alla sua rivalità con Goran Ivanisevic (oltre a garantirgli le successive 32 vittorie in match contro giocatori mancini).
[2] Neanche quando, un paio di mesi fa, fece fuori Re Federer sul rosso. Neppure lo scorso anno a Parigi, se vogliamo, quando costrinse Nadal a giocare la sua prima partita al quinto set al Roland Garros: due anni fa aveva battuto Gasquet e Wawrinka sulla strada della finale di Belgrado, persa (con match point) contro l’amico Sam Querrey. Sa come si fa, insomma, a dispetto della superficie poco frequentata negli anni di formazione.