I giocatori con una classifica “ibrida” vivono settimanalmente un dubbio: giocare tornei “alla portata” oppure tentare a livelli più alti, ma con spese e rischi maggiori? L'ATP ha ascoltato il parere di alcuni giocatori. 

Una buona programmazione è tra le esigenze principali di un tennista. Lo sanno anche in Italia: il nuovo corso del Settore Tecnico FIT si occupa di curare questo aspetto per i baby tennisti. Il problema si pone, all'ennesima potenza, nel circuito mondiale. E si fa cruciale quando tocca i giocatori che oscillano tra l'80esima e la 200esima posizione ATP. Giunti a quel livello, si trovano a un bivio: insistere con i Challenger oppure tentare fortuna nel circuito ATP? Si è occupato dell'argomento un interessante articolo del sito ATP, realizzato da Josh Meiseles, autore dello “spotlight” settimanale dedicato al circuito minore. Ma stavolta ha fatto di più, ascoltando il parere di alcuni giocatori nella settimana del Masters 1000 di Monte Carlo: alcuni giocatori hanno provato le qualificazioni nel Principato, altri hanno preferito il Challenger di Sarasota, 100.000 dollari di montepremi e la terra verde, ben diversa (e più veloce) rispetto a quella europea. In Florida, la prima testa di serie era Tim Smyczek, numero 69 ATP. L'americano (che ha conquistato tanti tifosi per il gesto di sportività durante il match contro Nadal a Melbourne) ha spiegato la sua “policy”. “Scelgo in base a quello che mi serve in un determinato momento. Se vivo un periodo in cui non gioco tante partite, forse è meglio un challenger, dove è più probabile giocare e vincere. Però può essere anche il contrario: magari nelle qualificazioni di un torneo ATP trovi tre giocatori abbordabili e centri il main draw, mentre in un Challenger può capitare una testa di serie già al primo turno”. Smyczek sa di non avere molte chance sul rosso, allora sta finalizzando la sua programmazione per essere al top nell'estate americana sul cemento. “Da qui a luglio non ho molti punti da difendere, per questo ho preferito restare in America e affrontare avversari alla mia portata. Prendo molto sul serio la stagione sul rosso, ma voglio giocare il mio miglior tennis sul duro. I migliori si possono programmare come vogliono, io devo andare laddove posso permettermelo”.


SUPERFICIE PREFERITA O NO?

Se Smyczek si programma per ragioni tecniche o di opportunità, altri sono ancora più “estremi”. E' il caso del belga Ruben Bemelmans, 27enne che in questa stagione ha raggiunto per la prima volta i top-100. Non ama giocare sulla terra rossa e cerca di giocarci il meno possibile. La scelta ha pagato, visto l'ottimo bilancio stagionale. “Preferisco il cemento o al massimo la terra verde, dove la palla è più veloce. Non sono andato a Monte Carlo perchè non volevo correre il rischio di incontrare uno specialista che si mette a tre metri dalla riga e ti obbliga a partite da cinque ore. E poi, sulle altre superfici, il servizio è molto importante”. Giocare sulle superfici ostiche, tuttavia, può essere parte di un percorso di crescita. È la scelta di Denis Kudla, classe 1992. Dopo Houston, è volato fino a Monte Carlo e la sorte gli ha dato una mano. E' stato il primo americano a qualificarsi nel Principato dal 1998: l'ultimo a riuscirci fu Jeff Tarango. Ma ha corso un rischio economico e logistico: dopo Monte Carlo è tornato in America per giocare a Guadalajara, dopodichè si è spostato in Asia per giocare sul cemento di Taipei e Busan. “E' una vita molto faticosa – continua Bemelmans – la necessità di tenere le spese sotto controllo, unita alla fatica fisica e mentale, puoi distruggere anche i più solidi dal punto di vista mentale”. Insomma, ATP o Challenger? L'eterna domanda non avrà mai una risposta univoca, perchè le situazioni cambiano. Passare le qualificazioni in un ATP regala 12 punti, ma poi c'è il rischio di trovare un top-player. Al contrario, in un challenger ci sono (quasi) sempre avversari alla portata. “E una semifinale challenger vale quando un secondo turno in un ATP 250” dice Bemelmans.


L'ESEMPIO DEI FRANCESI

C'è anche la testimonianza del doppista James Cerretani: a suo dire, le condizioni di vita sono decisive così come la collocazione geografica dei tornei. I giocatori apprezzano la collocazione di tanti tornei in località piuttosto vicine tra loro. “In Europa ci sono spesso buone condizioni di vita, con l'ospitalità garantita in diversi tornei. E in alcuni provvedono anche a pagarti pranzo e cena”. Le condizioni di vita, ad ogni modo, sono destinate a migliorare. L'ATP sta gradualmente aumentando il montepremi minimo dei challenger e dal 2016 l'ospitalità sarà obbligatoria in tutti i tornei. “Mi piace molto l'organizzazione dei francesi – dice Cerretani – hanno uno staff che viaggia da una sede all'altra. Per questo capita di vedere le stesse facce ad ogni torneo, e si crea un clima molto amichevole. A volte li conosci anche di nome”. La logistica è un aspetto ancora più importante per i doppisti, che a certi livelli guadagnano davvero pochi soldi. “E' importante non spendere troppo in viaggi – dice Treat Huey – Sarasota era la tappa ideale perchè da Houston abbiamo volato per meno di due ore e poi c'erano solo 45 minuti di auto. Inoltre i miei genitori abitano non troppo distanti e sono venuti a vedermi”. Per i doppisti prevalgono le ragioni tecniche ed economiche, anche se ci sono quelli che fanno coppia con singolaristi. “In quel caso devi adeguarti alla programmazione del tuo compagno” conclude Huey. Tennisti, certo, ma anche ragionieri.