La Finale di Roma ha messo davanti per la 57esima volta Nadal e Djokovic, e alla fine l’ha spuntata chi è riuscito a concentrarsi di più sui propri colpi. Come faceva Borg che quasi dimenticava chi si trovava di fronte
Tutti vorrebbero, ma nessuno ci riesce! Per quanti sforzi possiamo fare, nessuno di noi saprebbe captare con esattezza cosa passa per la testa di due tennisti chiamati a misurarsi per la 57esima volta, e quali siano i punti più esplicativi da portare in campo dei tanti scambiati nel tempo sempre con lo stesso soggetto. Né è dato sapere a quale esercizio mnemonico ricorrerebbero per riepilogare le fasi salienti di una lunga disfida e mettere in piedi qualcosa architettata a pennello.
E alla vigilia di un confronto reiterato all’infinito, tutti cerchiamo di inseguire una logica tritando pronostici da enalotto solo a volte beneficiati dal dubbio. Molti si affidano alle statistiche, altri alla diversità di stile e, andando sul sicuro, c’è chi tira in ballo l’essenziale testardaggine richiesta dal gioco.
Entrando nel centralone del Foro Italico in Roma, Djokovic e Nadal trascinavano al seguito un bilancio di poco favorevole al serbo, un gioco a specchio e un’aspirazione pressoché identica. Per passare alla cassa, dunque, avevano ben poco di inedito da escogitare e le tante volte spese a sfidarsi l’un l’altro potevano riassumersi in qualche riflessione preordinata con un coach in camera caritatis lasciando il resto alla capacità di astrarsi.
Già, l’astrazione ! Qualcosa che ci riporta a Michel Focault, il quale asseriva che «la scrittura ha la facoltà di strappare a se stessi e che una volta rientrati nelle proprie spoglie ci si accorge di aver maturato nuove esperienze». Parole sante, elargite da un grande pensatore che sulla natura umana la sapeva lunga. L’ astrazione, dunque, ecco il segreto! Quella sfumatura mentale di cui Borg era maestro: “«A volte non so neanche chi ci sia di là», diceva, «tanto sono concentrato su di me e la mia metà campo». Un modo per ridurre il problema tattico al minimo sindacale, qualcosa da sbrigliare tra un giocatore, una rete al centro e tante righe lungo le quali far correre una palla uscendone il meno possibile. Un pensiero che per assurdo vedrebbe anche l’avversario come i cavoli a merenda.
Stando così le cose, col senno del poi potremmo riconoscere a Nadal una piena astrazione quando sul cinque pari del primo set ha sfilato a Djokovic il servizio per vincere il set nel game successivo. E di sana astrazione si sarebbe trattato quando il serbo sul due pari del secondo ha maturato un break e il successivo 6-1 che ripagava il rivale con la stessa moneta.
L’ultima astrazione ha fagocitato completamente Nadal quando nella frazione decisiva ha messo a segno 11 punti di fila. Una condizione eterea che non l’ha più lasciato fino al matchpoint con cui ha chiuso la pratica.
Decimo titolo a Roma, dunque, per altrettante astrazioni maturate in tre lustri di presenze in quel del Foro. E’ lontano il ragazzino coi capelli da apache tutto corri e tira, dall’uomo che oggi calca i campi con qualche anno in più ma armato di ben altro spessore tecnico.
Tornando ai dubbi, sfugge l’idea che Nadal e Djokovic avessero della finale. Quello di cui andiamo certi, però, è di non aver visto soltanto geometrie malmenate da fondo ma anche traiettorie variate e spesso interrotte da splendide smorzate, ormai impossibili da ignorare per uscire dal logorio degli scambi senza fine.
Ora, come da copione, i due si avviano a concludere in quel di Parigi la stagione sulle sabbie rosse della vecchia Europa. Il totale dice ventinove a ventotto per il serbo e già tutti ci chiediamo cosa passerà per la loro testa alla prossima disfida! All’orizzonte solo incertezze ma su una cosa possiamo andare dritti: il cinquanttottesimo confronto premierà l’uno o l’altro solo se al gioco sapranno unire la capacità di astrarsi e non distrarsi, così come insegna il buon Focault.