di Giorgio Giosuè Perri – foto Getty Images
Riscrivere la storia di uno sport, abbattere tutte le barriere razziali, vincere e convincere. E’ il 1975 quando, per la prima volta nell’Era Open, due americani si ritrovano uno di fronte all’altro nell’atto finale dei Championships. Jimmy Connors non è solo il campione uscente, è il ribelle, il bello e dannato di un tennis fatto di contraddizioni e storie complicate. L’altro è Arthur Ashe, un uomo giusto e onesto, un atleta esemplare e corretto, uno che con le sue lotte e le sue ambizioni non ha vinto solo in campo.
I due non sono amici, a mala pena si guardano in faccia. Connors è diverso rispetto all’anno prima, non ha più una relazione con Crhis Evert e non si fa seguire più da Sancho Segura. I due, però, condividono qualcosa di più grande e forse più pericoloso. Connors ha subito un infortunio nel match di primo turno contro John Lloyd e la mattina del 5 luglio la passa insieme ai dottori del Chelsea, anche Ashe le ore prima dell’incontro più importante della sua carriera le passa insieme a Doug Stein, che oltre ad essere uno dei suoi migliori amici è anche il suo dottore. “Oggi sento di non poter perdere” sono le parole che pronuncia prima del riscaldamento con il mancino Ray Ruffles, noto per aver fatto da sparring partner a giocatori che in finale avrebbero sempre vinto.
Si respira un’aria incredibile, intorno alle 14:00, sembra quasi che il mondo sia tutto racchiuso in uno spazio infinitamente piccolo, quello del centrale di Wimbledon. Il solo ingresso in campo si rivela decisivo: Ashe provoca il suo avversario, spesso criticato di essere poco patriottico, indossando un giubbotto blu con la scritta “USA” mentre Connors si presenta con una semplice polo di Sergio Tacchini. Il contrasto di stili, una volta tanto, sembra essere capovolto e i primi scambi della partita dimostrano che qualcosa di diverso c’è davvero. E’ una partita strana, che va a strappi, ma quello a partire meglio è proprio il primo finalista di colore della storia dei Championships. In poco più di quaranta minuti si permette il lusso di scherzare il campione in carica, si prende la responsabilità di rischiare per primo, di essere più efficiente con il servizio e con i colpi da fondo. Jimbo capisce poco di quello che succede, il dominio di Ashe è quasi imbarazzante e il 6-1 6-1 nemmeno troppo severo.
La rabbia del campione, però, esce nel momento del bisogno. Connors non vuole saperne di mollare e Ashe, spesso preda di lunghe pause durante i match, inizia a tremare. L’incontro sembra cambiare rapidamente quando, dopo essere andato sotto di un break, Connors trova le misure per rispondere con prepotenza alle prime più potenti e adesso meno lavorate di Ashe. Il terzo set va in archivio con altrettanta rapidità e le preoccupazioni per il nativo di Richmond, che va sotto di un break anche nel quarto set, aumentano a dismisura.
Ma il destino, delle volte, ha la grande capacità di far ritornare le cose al proprio posto in maniera tanto semplice quanto beffarda. E’ una volée larga sul 3-1 40-30 che fa rientrare in partita Ashe. In quel momento, forte di una volontà straordinaria, lo statunitense ricomincia a danzare per il campo senza più voltarsi indietro, riuscendo a ottenere il contro break e strappando il servizio all’avversario anche nel nono gioco. Nel decimo game più importante della sua carriera, c’è tutto: il servizio non gioca alcuno scherzo e la freddezza nei pressi della rete si rivela, per l’ennesima volta, fondamentale per lasciare Connors a 15 e realizzare il sogno di tutta una vita: trionfare nell’Olimpo del tennis.
Ci sono sguardi, ci sono lacrime. Nel post partita c’è anche qualche provocazione, ma la gioia è talmente immensa che Ashe si lascia scivolare in un’altra dimensione dimenticando tutto, dimenticando il dolore di una vita vissuta sempre ai margini. E’ uno dei momenti più importanti della storia dello sport: un nero che vince nel Regno dei bianchi, un nero che con forza e determinazione sconfigge i pregiudizi e porta le minoranze ad avere una voce, lì dove solo i più grandi riescono a trionfare, lì dove tutto è necessario e niente indispensabile, lì dove i sacrifici ripagati hanno tutto un altro