Sta per entrare in vigore il passaporto biologico: potrebbe essere un notevole salto di qualità, ma è troppo costoso. Allora perchè non demandarlo, almeno in parte, alle organizzazioni nazionalI?

Di Alessandro Mastroluca – 24 agosto 2014

 

È la vigilia della rivoluzione, o di un annuncio gattopardesco che nulla cambierà? Ai posteri l'ardua sentenza. La WADA, l'organizzazione mondiale antidoping, ha ordinato alle organizzazioni antidoping di rifare i test sui campioni conservati per verificare la presenza di ormone della crescita (HGH). La decisione è il risultato del nuovo regolamento antidoping, che ha abbassato i limiti massimi consentiti oltre i quali la presenza di HGH, e di un nuovo metodo di analisi basato sul dosaggio delle isoforme, è considerata illecita. L'ormone della crescita è una sostanza che l'organismo produce naturalmente in una certa misura, ed è difficilissimo da individuare vista l'emivita brevissima. La sospensione dei test per accertarne la presenza in questi ultimi anni può aver accelerato l'utilizzo di ormoni della crescita, anche sintetici, e di fattori di crescita, alla base per esempio del plasma arricchito di piastrine, pratica consentita dalla WADA finora, di cui hanno fatto uso tra gli altri Kobe Bryant, Tiger Woods e Rafa Nadal. Questi test, se verranno effettuati, saranno comunque controlli tradizionali che mirano a verificare la presenza e la concentrazione di una specifica sostanza proibita all'interno di un campione. E si accompagneranno, nel tennis, all'introduzione del passaporto biologico, che diventerà attivo a settembre, anche se già dal 2013 sono iniziati i prelievi per costituire la base dati di partenza. È uno strumento che costituisce in ogni caso un salto di qualità, almeno in linea di principio, nella lotta al doping. Perché i campioni e i dati, una volta effettuato il controllo, vengono comunque conservati. E, come diceva Federer, uno dei maggiori sostenitori del passaporto biologico, per chi ha intenzione di barare “E' come sapere che in un laboratorio, da qualche parte, c'è una bomba a orologeria che prima o poi esploderà”Il passaporto biologico, infatti, non si basa sul singolo test alla ricerca della presenza di sostanze proibite nel sangue o nelle urine. È un sistema di monitoraggio nel tempo di parametri biologici che possono rivelare sostanze dopanti. Per esempio, si può dedurre l'assunzione di EPO dall'aumento innaturale di globuli rossi nel sangue. Grazie al profilo ematologico, che viene aggiornato a ogni nuovo controllo, si possono anche scoprire pratiche di emo-trasfusione o di doping genetico più difficili da individuare con i test tradizionali. Certo non basta certo da solo a cancellare l'ombra del doping. E la storia delle 25 discipline in cui è già in vigore, ciclismo in testa, lo confermano.

 

QUESTIONI DI RISORSE

I primi effetti già si sono visti. Nel 2013, anche in vista dell'introduzione del passaporto biologico, i controlli sul sangue sono aumentati del 30% rispetto al 2012 e il totale dei test fuori dalle competizioni è cresciuto del 613% rispetto a 12 mesi prima. D'altra parte, però, sono diminuiti i controlli sulle urine. Il confronto con i dati dell'Unione Ciclistica Internazionale è disarmante. Nel 2013 l'UCI ha condotto 14168 controlli, di cui 3267 fuori dalle competizioni. Se Nibali ha ringraziato il passaporto biologico per il suo trionfo al Tour de France, insomma, ha le sue buone ragioni. Il tennis, invece, si è limitato a 2752 controlli. Durante i tornei Almagro, Berych, Djokovic, Dimitrov, Dolgopolov, Ferrer, Fognini, Isner, Raonic, Simon, Tsonga, Wawrinka, Youzhny, Azarenka, Errani, Kirilenko, Kuznetsova, Kvitova, Flipkens, Safarova, Vinci e Serena Williams sono stati sottoposti a più di sette controlli. Nadal e Federer da quattro a sei, però sono tra i più controllati al di fuori delle competizioni (sette o più). Andy Murray è uno dei top-10 meno controllati, ma i dati più sorprendenti riguardano Simona Halep, rivelazione della scorsa stagione, controllata da 4 a 6 volte nei tornei, da una a 3 fuori, e Jelena Jankovic, mai testata fuori dalle competizioni. “Mi sembra che il sistema sia un po' random – ha dichiarato quest'anno durante il torneo di Charleston – mi chiedo se mi hanno controllata di meno perché sono andata in vacanza a Dubai, per cui farmi i controlli sarebbe costato di più”Ecco il problema di fondo: le risorse limitate. Gli atleti coinvolti nel programma per il passaporto biologico, spiega Miller, saranno sostanzialmente comparabili con quelli che oggi devono comunicare i propri whereabouts alla Wada (i top-50 in singolare e i top-10 di doppio ATP e WTA). Cifre alla mano, quest'anno la Federazione Internazionale può contare su poco meno di 3,5 milioni di dollari per il programma antidoping. Facendo un rapido calcolo, se il campione di riferimento è lo stesso, si tratta di raccogliere 420 campioni di sangue, che devono arrivare al laboratorio e venga analizzato entro 30/36 ore massimo dal prelievo. Non solo. Il campione deve essere sempre tenuto (dal luogo del prelievo a quello dell’analisi) ad una temperatura costante, non inferiore ai 2 gradi e non superiore ai 12, con costi che possono superare anche i mille dollari a campione. In pratica, servirebbe, solo per il passaporto biologico, una dotazione di risorse doppia di quella a disposizione dell'ITF.

 

UNA POSSIBILE SOLUZIONE

Cosa fare allora? Una soluzione potrebbe essere affidare, in tutto o in parte, il programma di test fuori dalle competizioni alle federazioni nazionali, o ai comitati olimpici. È la scelta della FIFA, che ha introdotto il passaporto biologico ai Mondiali in Brasile ma affida i test alle varie organizzazioni che governano il calcio a livello territoriale. Il sistema è evidentemente migliorabile, nel 2013 solo il 2,38% dei 28002 test sono stati controlli sul sangue, una percentuale lontana dal 10% indicato come obiettivo dalla WADA. In questa media, però, spiccano in positivo i 232 test ematici compiuti dal CONI (8%) e in negativo l'assenza totale di test ematici in Spagna, in Olanda, in Brasile. Il tennis, però, non sembra voglia procedere in direzione di una decentralizzazione dei controlli. L'associazione antidoping francese (AFLD) ha polemizzato con l'ITF perché, nonostante l'invito rivolto l'anno scorso dal Senato transalpino, la Federazione internazionale non ha raggiunto alcun accordo con l'AFLD per i controlli al Roland Garros o con altre agenzie nazionali negli altri tornei dello Slam. Gli organizzatori del major parigino hanno comunicato con certa fierezza di aver svolto 200 controlli nell'edizione 2013. I test però coprono tutti i giocatori nel main draw di singolo, doppio e doppio misto, tutti gli iscritti alle qualificazioni e tutti gli junior: con buona approssimazione, un test ogni due, ogni tre giocatori. Troppo poco. La decentralizzazione dei controlli avrebbe anche un altro vantaggio, al di là del risparmio per l'ITF. Come dimostra la gestione della positività di Cilic, gli effetti più pesanti, in termini di credibilità, della positività di un top player, ricadono sugli organismi di governo del tennis. Ecco perché sarebbe opportuno affrancare da questi stessi organismi la responsabilità del sistema di controlli.