Il budget del programma antidoping è inferiore al prize money intascato dai vincitori dell’Australian Open. Pochi test sul sangue, e si scopre che quelli sulle urine…
Barbora Zahlavova Strycova potrebbe essere il 64esimo caso di positività nel tennis
Di Riccardo Bisti – 29 gennaio 2013
Durante la premiazione dell’Australian Open, Novak Djokovic ha messo una busta dentro il Norman Brookes Challenge Trophy. Lì dentro c'era un assegno 2.430.000 dollari australiani, cifra superiore all’intero budget annuale dell’antidoping. E Victoria Azarenka ha intascato la stessa cifra. Il dibattito sull’adeguatezza (o meno) dei controlli antidoping non accenna a fermarsi. Da una parte ci sono quelli che vorrebbero più test, dall’altra chi pensa che l’attuale sistema sia fin troppo stringente. L’ultima a parlare è stata Marion Bartoli: la francese ha detto che deve sottoporsi a 35-40 controlli antidoping all’anno. “E’ impossibile doparsi e non essere beccati” ha detto Marion, che però non ha saputo spiegarsi come mai Lance Armstrong sia sempre sfuggito ai controlli. Nel 2013, il programma antidoping ITF possiede un budget di 2 milioni di dollari, versati da ITF, tornei del Grande Slam, ATP e WTA. In questa cifra sono inclusi i 400.000 dollari di gestione del programma, pagati dalla stessa ITF. Nel 2011 sono stati effettuati 2.150 test antidoping, di cui soltanto 131 sul sangue e appena 21 fuori dai tornei. La percentuale di controlli del sangue sul totale dei test è piuttosto esigua rispetto agli altri sport: nel ciclismo rappresentano il 35% del totale, mentre nell’atletica sono il 17,6%. “Mi piacerebbe sapere se c’è qualche altro sport in cui il programma antidoping ha fatto dei passi indietro negli ultimi anni” ha detto polemicamente Darren Cahill, ex ottimo giocatore nonché coach di Lleyton Hewitt e Andre Agassi. La confessione shock di Lance Armstrong, il quale ha ammesso di aver fatto uso di doping per vincere i suoi sette Tour de France, ha smosso le coscienze anche nel tennis. Si parla sempre più spesso di doping, come se ci fosse la sensazione che manchi qualcosa.
“I test sul sangue vengono fatti nei tornei del Grande Slam, solitamente dopo la sconfitta, ma io non sono mai testato sul sangue al di fuori delle competizioni” ha detto Mike Bryan, recente vincitore dell’Australian Open di doppio. Per lui e il gemello Bob è stato il 13esimo Slam in coppia, record assoluto (superati Newcombe-Roche, fermi a quota 12). Intervistato dall’agenzia Reuters, Mike Bryan ha detto di sottoporsi a una ventina di controlli all’anno, ma che fuori dalle competizioni ci si limita ai tradizionali test delle urine. I test delle urine sono in grado di rilevare molte sostanze vietate, tra cui l’EPO, mentre le analisi del sangue possono trovare l’ormone della crescita (quello che è stato trovato nella valigia di Wayne Odesnik qualche anno fa, causandogli una squalifica di due anni poi ridotta a uno per motivi mai chiariti a fondo). Secondo John Fahey, capo della WADA (l’agenzia mondiale antidoping), il tennis ha un sistema antidoping piuttosto efficace, ma che si potrebbe fare di più. “Se c’è un numero insufficiente di controlli sul sangue, gli atleti possono prenderne coscienza e fare scelta di sostanze proibite di un certo tipo perché sanno che difficilmente saranno controllati. Mi piacerebbe che ci fosse una percentuale obbligatoria di test sul sangue, in modo da garantire una certa tutela anche su certe sostanze”. Secondo Fahey, c’è la tendenza generalizzata a lasciar perdere i controlli sul sangue. “Per questo sto spingendo affinchè nel nostro nuovo codice, che verrà firmato nella conferenza mondiale di novembre, ci siano disposizioni obbligatorie in questo senso”.
C’è un altro aspetto che preoccupa Fahey: secondo lui, i campioni di urina non sempre vengono analizzati per individuare tutte le sostanze che potrebbero essere rilevate. “Ad esempio, non sempre viene controllata la presenza di EPO. Viene fatto per mantenere i costi più bassi. Bisogna cambiare qualcosa”. Secondo Mike Bryan, se un tennista viene a sapere che un collega fa uso di doping, ha l’obbligo di avvertire le autorità. “E’ come un codice d’onore. Devi farlo e basta. Non bisogna essere complici di uno scandalo del genere. Bisogna fare la cosa giusta, anche se si tratta di un amico. Penso che probabilmente denuncerei anche mio fratello”. Ciò che impressiona è la scarsità dei fondi: 2 milioni di dollari sono una cifra molto bassa il relazione al giro d’affari del tennis. I circuiti mondiali mettono in palio ogni anno circa 300 milioni di dollari di prize money, mentre l’installazione di “hawk eye” (il sistema elettronico che verifica l’esatto punto di rimbalzo della palla, con un margine d’errore di qualche millimetro) costa tra i 50 e i 60.000 dollari per campo. Nonostante la crisi, i ricavi sono in aumento: secondo Cahill, bisognerebbe investire di più sul programma antidoping. “Con tutti i soldi che i tennisti stanno tirando fuori dagli Slam, penso che sarebbe una buona idea investire qualcosa per migliorare il programma antidoping. Sarebbe un segnale forte: faremmo capire che non solo crediamo nel nostro sport, ma che ci impegniamo per assicurarsi che sia pulito”. Il fatto è che le responsabilità per il finanziamento del programma sono delle autorità, non certo dei giocatori. “Spetta alle associazioni stabilire e rendere chiaro che i fondi saranno investiti nel programma, soprattutto se per aumentarli si dovesse intervenire sul prize money”. Nel frattempo l’ITF ha detto che nel 2014 potrebbe introdurre il passaporto biologico anche nel tennis. Dal 1995 anni, ci sono stati 63 casi di positività nel tennis (che potrebbero diventare 64 se dovesse essere confermata la positività di Barbora Zahlavova Strycova). Secondo Cahill non è un dato sufficiente per dimostrare la pulizia del tennis. “Credo che dopo quanto accaduto negli ultimi mesi dovremmo essere più prudenti”.
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