Il sudafricano ha vinto a Delray Beach il secondo titolo in carriera. “Se pensa che qualcosa possa migliorarlo anche solo dell’1%, state certi che la farà” dice il coach.
Kevin Anderson con il trofeo del torneo ATP di Delray Beach

Di Riccardo Bisti – 5 marzo 2012

 
La vittoria a Delray Beach ha un sapore speciale per Kevin Anderson. Ok, il primo titolo non si scorda mai, anche perché è arrivato proprio a Johannesburg, sua città natale. Ma vincere negli Stati Uniti, per uno che ha frequenato il college dell’Illinois, vale tantissimo. Lo ha anche detto: “Gli Stati Uniti sono la mia seconda casa”. Battendo in finale Marinko Matosevic con il punteggio di 6-4 7-6 ha anche raggiunto il proprio best ranking, salendo al numero 30 ATP. L’avventura di Anderson è iniziata tanti anni fa, quando papà Mike costruì un muro sul giardino di casa per far colpire i figli Kevin e Greg. I ragazzi diventavano pazzi dietro a quel gioco, tanto che spesso il padre era costretto a farli smettere. Alla sera, però, non dimenticava mai di leggere “Total Tennis Training” di Chuck Kriese, il libro da cui ha appreso i rudimenti tecnici da trasmettere agli eredi. Una volta passarono tutta la mattina di Natale a giocare a tennis. Erano gli anni in cui il tennis sudafricano stava vivendo gli ultimi fuochi grazie a Wayne Ferreira, l’ultimo capace di entrare tra i primi 10. Grazie agli insegnamenti del padre, Kevin ha avuto una buona carriera junior. Ma intorno ai 18 anni di età ha avuto la maturità di capire che non era pronto per diventare professionista, così ha accettato una borsa di studio presso l’Università dell’Illinois, dove peraltro è stato seguito dal coach sudafricano Craig Tiley. “Il periodo universitario è stato il migliore della mia vita” ricorda oggi Anderson, che nel 2012 ha un bilancio di 10 vittorie e 4 sconfitte. John De Jaeger, attuale capitano di Coppa Davis, lo conosce da quando era teenager. “Non ho mai avuto dubbi sul fatto che sarebbe diventato forte. Già allora aveva l’etica del lavoro, la mentalità giusta e le armi”.
 
Qualche anno fa, in occasione di un match di Coppa Davis contro l’Olanda, a Potchefstroom, il team sudafricano stava rientrando in hotel. Era inverno, faceva freddo. Ma a un certo punto Anderson disse di non sentirsi a suo agio con il servizio e chiese di tornare in campo. Fecero marcia indietro e Kevin si sparò altri 45 minuti di battute. “Farebbe qualsiasi cosa che possa aiutarlo a diventare un tennista migliore” conclude De Jaeger. “Io credo che ogni giorno sia una buona occasione per migliorare – dice il diretto interessato – e sono orgoglioso di lavorare duro. Si tratta di trovare il giusto bilancio tra il tentativo di affinare i miei punti di forza e di migliorare le debolezze. Durante i match, ultimamente, sto cercando di migliorare il mio lato creativo”. Louis Vosloo, il suo coach, ha il problema che ogni allenatore vorrebbe affrontare: gestire la troppa voglia di migliorare sul suo allievo. Non lo deve spingere a fare di più, ma deve contenerlo. “Se pensa che qualcosa possa migliorare il suo rendimento anche solo dell’1%, beh, state certi che lo farà. Pensate che durante il torneo di Auckland siamo andati a cercare un particolare tipo di aceto perché pensavamo che potesse migliorare il suo sistema digestivo”. Anderson sa bene che esiste una linea sottile che separa l’esigenza di lavorare duramente e la necessità di gestire il proprio corpo. Ad esempio, anziché allenarsi 4 ore al giorno, si limita a 2 perché è consapevole che i problemi al ginocchio gli impediscono di fare di più. Kevin Ullyett, ex doppista dello Zimbabwe che ha vissuto a lungo in Sudafrica, dice: “Il paese ha bisogno di una star tennistica. Credo che Anderson possa diventare quel campione che spingerà i bambini ad avvicinarsi al tennis. Lui è la testimonianza che non c’è bisogno di essere fenomeni a 17 anni oppure obbligare i genitori a dissanguarsi economicamente per mantenere il figlio in un’Accademia. Basta lavorare duro, finire la scuola e fare il proprio percorso con serietà”.
 
Anderson è la testimonianza vivente di come sia importante come si arriva, e non come si parte. 18 anni fa è partita dal muro di casa, oggi è tra i primi 30 tennisti del pianeta. A quasi 26 anni si è sposato con Kelsey (“E’ venuta a vedermi nel weekend”, racconta con entusiasmo) e ha messo insieme quasi tutti i pezzi del suo tennis. Nel maggio di 17 anni fa, Wayne Ferreira è stato numero 6 del mondo. E’ difficile che possa raggiungerlo, ma se c’è un giocatore che sicuramente esplorerà i suoi limiti…beh, quello è proprio Kevin Anderson da Johannesburg, Sudafrica. A Delray Beach lo ha dimostrato una volta di più.