L’incredibile storia di Natasha Smith, che a 13 anni scappò di casa con 300 dollari in tasca perché voleva bere e drogarsi. Dopo indicibili sofferenze, il tennis le ha salvato la vita.
Natasha Smith gioca per l'Università dello Utah

Di Riccardo Bisti – 13 aprile 2012

 
Flash numero 1: sua madre aveva lasciato 300 dollari nella borsa, incustoditi. La tentazione fu troppo grande: Natasha Smith li prese e scappò via, chiamando un taxi nella notte di Palm Springs. “Portami via, il più lontano possibile”. Finì su una spiaggia di Long Beach, dove un uomo cercò di violentarla. All’epoca aveva 13 anni. Troppo giovane per fare quello che stava facendo, troppo problematica per capirlo. Flash numero 2: da allora sono passati cinque anni, e Natasha picchia dritti e rovesci a Salt Like City. Gioca per il team femminile dell’Università dello Utah e ha ricomincito a sperare. Ma nessuno sa se quel passato tornerà.

Quando aveva 13 anni, la vita di Natasha Smith era rose e fiori. Nata a Calgary, in Canada, aveva subito mostrato una viva predisposizione per il tennis. Tutti dicevano che sarebbe diventata campionessa nazionale. Quando senti dire certe cose ti viene da crederci. I genitori decisero di trasferirsi a Palm Springs, in California, dove si trova l’Accademia diretta da Josè Higueras. Un’Accademia esclusiva, dove vengono ammessi soltanto giocatori dal sicuro avvenire, soprattutto stranieri. Natasha possedeva ogni requisito e iniziò la nuova vita, allenandosi cinque ore al giorno. In poco tempo diventò la migliore tennista della California nella sua fascia d’età e una delle migliori in tutto il paese. “Era troppo – racconta oggi – stavo perdendo tutto quello che fanno le ragazze normali”. La strada per il professionismo era spianata, fino a quando ha iniziato a bere. Una volta, due volte, tre volte…fino a decidere di smetterla col tennis. Meglio un drink della racchetta. Meglio bere e drogarsi piuttosto che giocare un tie-break.
 
Mamma Alexandra e papà Geoff la presero bene. Erano dei buoni genitori: non la pressavano, non la rimproveravano dopo una sconfitta…la lasciavano vivere. E accettarono di buon grado la decisione della figlia. Avevano investito tanto, ma la serenità della figlia veniva prima di tutto. Il guaio è che non sapevano la vera ragione della rinuncia. All’improvviso, con un mucchio di tempo libero a disposizione, Natasha iniziò a sbandare paurosamente. Una volta, insieme alla sorella e alcuni amici si nascosero nella barca di famiglia in British Columbia e si ubriacarono, fumarono erba e presero allucinogeni. Papà Geoff decise di mandare tutta la famiglia in un centro di riabilirazione a Malibu. Era spaventato perché anche lui, da giovane, aveva avuto problemi di questo tipo. “Quando avevo 17 anni ho fatto cose spaventose”. Poi è andato in riabilitazione ed è riuscito a mettersi l’alcol alle spalle. Ma non era così per la figlia. La sera in cui Natasha scappò di casa finì in preda alla più cupa disperazione. Il giorno dopo prese la macchina e guidò a tutta velocità verso Los Angeles, dove sperava di trovarla. “Ero al telefono con un amico, esperto di dipendenza da droghe, e sbraitavo – racconta oggi – lei aveva 13 anni! Riuscivo a malapena a tenere il controllo dell’auto. Natasha mi chiamò, si trovava alla stazione degli autobus di Long Beach e aveva un biglietto per Las Vegas. In 20 minuti arrivai sul posto e la presi in braccio”. Natasha è rimasta 115 giorni nel centro di riabilitazione. Incontrò un ragazzo di 19 anni che era appena uscito di prigione. I due iniziarono a frequentarsi segretamente. In quel momento era debole, era sotto la cura di uno psichiatra e prendeva antidepressivi. Quando i genitori vennero a sapere della relazione, le proibirono di continuare a vederlo. Lei andò fuori di testa e minacciò il suicidio. “Credevo di essere innamorata di lui”. Allora la mandarono in un altro centro: a Tucson, in Arizona, rimase 50 giorni. Effetti benefici? Zero. “Mandavo al diavolo i miei genitori, pensavo solo a quel ragazzo”.
 
Papà Geoff ricorda: “Era dentro un vortice. Aveva un comportamento malsano. Non riconosceva più l’autorità dei genitori. Avrebbe potuto avere una borsa di studio a Stanford o a Duke, e invece non gliene importava nulla. Voleva gestire la vita a modo suo e aveva una forte personalità”. Allora la spedirono nello stato di New York, presso la Family Foundation School, in un luogo che lei descrive così: “Era un collegio. E’ stato un inferno, non mi lasciavano mai da sola. Il mio unico contatto con l’esterno era una telefonata a settimana con i genitori. 10 minuti, non di più. Dormivo con altre 10 ragazze, alle 4.30 del mattino bisognava spalare la neve e alle 6 si andava in chiesa. Bisognava finire i pasti, e se non lo facevi venivi messa in punizione. Sono diventata pazza”. La conclusione era ovvia: il 26 agosto 2009, giorno del suo 15esimo compleanno, decide di scappare insieme a un’amica. Le due finirono in Pennsylvania, dove occuparono una casa disabitata. Vi dormirono qualche notte, trovarono qualche bottiglia di liquore e devastarono il posto. Temendo che i proprietari sarebbero tornati, scapparono di nuovo e trovarono ospitalità in una camera sopra il bar di uno sconosciuto. A quel punto Natasha capì di aver toccato il fondo. Prese coraggio e telefonò ai suoi genitori, chiedendo di poter tornare a casa. Con sua grande sorpresa, le diedero due opzioni: “O torni a scuola o ti fai arrestare dalla polizia”. “Avevamo una pistola alla testa – racconta il padre – in quel momento dovevamo fare la cosa giusta”. Natasha avrebbe dovuto restare alla Family Foundation School per ancora un anno. “Per sei mesi mi sono rifiutata di reagire. Mi hanno messo in una stanza minuscola, una volta ci rimasi per due giorni senza mai uscire. Un membro del personale mi disse che avevo un grande potenziale e lo stavo buttando via. Mi ha colpito, dandomi la scossa per reagire. Ho commesso altri errori, ma almeno ci ho provato”.
 
Dopo 13 mesi ha chiamato i genitori dicendo che era finalmente pronta a ripartire. Voleva fare qualcosa di buono: giocare a tennis. I genitori accettarono di riportarla a casa. Per sei mesi si è comportata in modo impeccabile, poi è tornata nel tunnel. Alcol, droghe. “Ho sentito di averne bisogno. Avevo corsi difficili a scuola, giocavo a tennis tre ore al giorno…pensavo che mi avrebbero dato una mano”. Quando risultò positiva a un test sull’utilizzo di droghe, i genitori la misero davanti a un bivio: “Se sbagli ancora ti cacciamo, ma stavolta per sempre”. Non volevano farlo, anche perché la crisi aveva colpito il lavoro di Geoff. La famiglia si era trasferita in un condominio a Long Beach, e rimandarla in un collegio sarebbe stato molto costoso. Allora Natasha ha trovato la forza di intraprendere uno stile di vita generalmente positivo, sia pure tra alti e bassi. Una delle figure più importanti nella sua rinascita è stato il coach Peter Smith. “E’ stato il miglior mentore possibile per lei – dice papà Geoff – la sua famiglia l’ha praticamente adottata”. Il diretto interessato chiosa: “Ho visto in Natasha la voglia di ascoltare e imparare. Aveva 16 anni, non è stato difficile. Per i miei figli era una sorta di sorella maggiore, così io e mia moglie l’abbiamo trattata come un adulto. Le è piaciuto e ne ha tratto beneficio. Tutti commettono errori, ma lei ha una grande anima. Questa seconda possibilità sta alimentando il suo spirito”. Adesso Natasha è ripartita dallo Utah. Come spesso accade, l’avventura è nata per caso. Il coach Mat Iandolo si trovava nel Sud della California a seguire un torneo giovanile. Accompagnava una ragazza, battuta nettamente dalla Smith. Si è informato su di lei: la preoccupazione per il so background ha lasciato spazio all’ammirazione per i suoi colpi potenti, in particolare il dritto. “Ero un po’ preoccupato, ma ho parlato con Peter, uno dei coach più rispettati, e mi ha detto di puntare su di lei. A dispetto dei suoi problemi ha una notevole intelligenza. Non è detto che tutti debbano avere un persorso convenzionale, ma credo che abbia imparato dagli errori”. Le hanno offerto una borsa di studio, e le aspettative sono discrete: “Non mi sorprenderei se diventasse una delle 100 più forti del paese”. Ma il peggio non è ancora passato. Il finale di questa storia non è ancora stato scritto. Natasha non si droga più, ma ammette candidamente di bere. “Ma tengo tutto sotto controllo”. I genitori sono sempre preoccupati. “Credo che abbia progetti importanti – dice il padre – ora sta vivendo bene, ma ho dovuto accettare di avere poco controllo sulla vita delle persone. Lei ha deciso di fare questo percorso, non è quello che avevamo pensato ma la rispetto per tutti i guai che ha superato”. Sono le due cose che ha amato e odiato di più – i genitori ed il tennis – ad averle dato la forza per questo tentativo. “E’ strano, ma il tennis mi ha salvato la vita. Non sono mai stata felice come ora. I miei genitori mi sostengono. Li ho mandati al diavolo più volte, ma mi hanno salvato la vita. Gli sono molto grata, li amo da morire”.