Un brillante e coinvolgente colloquio con Gerard Marzorati, editor al New York Times Magazine, scrittore, grande appassionato di tennis, ora autore di «Tardi sulla palla», opera virtuosa in equilibrio tra romanzo, autofiction e reportage
Negli States il tennis è un’opportunità per il college
«Sì, potremmo dire che il mio libro è anche una ‘ricerca del timing perduto’. Ma il problema è che il timing io non l’ho mai avuto…».
Gerard Marzorati sorride divertito, gli occhi chiari e buoni nascosti dagli occhiali da sole. Per decenni Marzorati è stato editor al New York Times Magazine, oggi da pensionato in ottima forma scrive di tennis per il sito internet de il New Yorker. Dalla sua passione tardiva, ma solida, ha ricavato ‘Tardi sulla palla‘ – nel doppio senso di arrivare tardi allo sport e in ritardo su un rimbalzo: ecco il tempo proustiano che si fa timing… – un libro in virtuoso, affascinante e un po’ crepuscolare equilibrio fra romanzo, autofiction, memoir, reportage e conte philosophique.
Vi si racconta come si possa iniziare a praticare uno sport anche dopo i sessant’anni, ricavandone soddisfazioni, arrabbiature, incanti. Se si è abbastanza pazienti, curiosi, diversamente competitivi, anche benessere e una dose ulteriore di saggezza.
«Da ragazzo ero piccolo e magro, fare sport per me era terribile, mi infortunavo sempre», spiega Marzorati, la cui famiglia viene da Cantù e che è lontano cugino di Pierluigi, ex stella del nostro basket. «Sono cresciuto a Paterson, nel New Jersey in un quartiere molto working class di italo-americani dove nessuno giocava a tennis. Io ho iniziato a guardarlo in tv a cavallo degli anni ’60 e ’70 quando c’era il boom: mi affascinavano le sue geometrie, l’aspetto gladiatorio di un atleta che sfidava l’altro. Mi dissi: ‘un giorno giocherò a tennis’. Ed è stato così. Anche se ci è voluto molto tempo».
Negli Stati Uniti il tennis oggi è uno sport minore, praticato più da cinquantenni e sessantenni, nei playground, i campi pubblici, i giovani preferiscono altri sport. «Soprattutto il basket, che per gli afroamericani è diventata una forma d’arte, come il jazz. In metropolitana a New York i neri ne parlano come fosse musica, i migliori talenti atletici vengono da lì. Se giochi nella Nba, anche se sei di seconda o terza fila, e giochi poco o niente, guadagni comunque 5 o 6 milioni di dollari. Nel tennis fuori dai primi 50 o 100 non ti metti in tasca molto e per arrivarci devi fare tanta fatica. Il tennis quindi è praticato soprattutto da ragazzi di buona famiglia che non hanno in mente di diventare professionisti, ma di guadagnarsi una borsa di studio per frequentare i college migliori. Per questo fatico a immaginare un nuovo numero 1 americano. Fritz e Tiafoe sono buoni giocatori, ma non credo vinceranno uno Slam».
Foster Wallace era un hater
Il tennis, e lo sport in generale, resta una sorta di recinto fortunato, per un intellettuale che si trova a scriverne: «C’è un vincitore, uno sconfitto, statistiche a cui entrambi sono soggetti. Se sei nero e forte, sei comunque il migliore, non ci sono discussioni. E sono convinto che un tennista gay oggi avrebbe una grossa audience, potenzialmente potrebbe fare un sacco di soldi. Ma se scrivi di arte e letteratura la questione razziale, di classe, il gender, si prendono tutto lo spazio. Non credo che la woke culture sia tutta un disastro, come pensano molti miei amici e colleghi. Nella società americana ci sono tanti problemi di cui discutere. Ma non amo il bianco e il nero, preferisco il grigio, le sfumature. Del resto se ho studiato letteratura è perché mi affascina la complessità. Lo sport non è impermeabile alla società, basti pensare alla guerra. Da un lato mi dispiace per i russi, ho conosciuto Rublev ed è un ragazzo adorabile; ma sono costernato anche per gli ucraini e la terribile invasione che hanno subito».
Il lettore-tennista Marzorati ha le sue passioni: «Federer, per l’eleganza», ma anche Wawrinka che compare spesso nel libro. «In America abbiamo un detto: più piccola è la palla, più letterario è lo sport. Quindi il golf, di cui ha scritto John Updike, poi tennis e baseball. Con mia moglie vado anche a vedere il baseball, sono un tifoso dei Mets, la squadra degli artisti e degli sfigati: sono poetici perché perdono, anche quando dovrebbero vincere, mentre gli Yankees sono i ‘vincenti’, piacciono di più agli uomini d’affari. Il New Yorker non è interessato al football americano, sport ‘trumpiano’, ma al tennis sì, e ho avuto molti riscontri soprattutto scrivendo di tennis femminile, di Coco Gauff e di Iga Swiatek. Del resto a Indian Wells o a Flushing Meadows è facile vedere gruppi di sole donne che vanno a vedere il tennis, in Europa credo meno».
La letteratura degli ultimi due secoli, da Tolstoj a Musil, a Bassani, e compresa quella americana, è piena di riferimenti tennistici. Fra Nabokov e Foster Wallace la scelta può essere difficile. O forse no. «Nabokov è più vicino al mio cuore. Ma oggi chi si azzarderebbe a dire che Lolita è il suo romanzo preferito? Una storia d’amore fra un uomo maturo e una dodicenne. La gente non capisce che apprezzarne il valore letterario non significa essere pedofili, ma credo che ormai in America non venga neanche più letto».
Di Foster Wallace Marzorati è stato anche l’editor, il famoso pezzo su Federer come esperienza religiosa è stato pubblicato sul New York Times magazine. «Apprezzo l’attenzione che aveva per il tennis, ma il suo problema è che di base era un ‘hater’. Un tennista molto frustrato, bravo alla High School ma non all’Università. Odiava Nadal, odiava Agassi, ha scritto cose terribili su Tracy Austin. Come si fa ad odiare Nadal, una delle persone più belle al mondo? Ma David aveva problemi mentali, sappiamo come è finita, e no, la sua narrativa non mi piace».
Il tennis a 60 anni…
Marzorati viene da Paterson, città di poeti, celebrata da Williams Carlos Williams e dove è nato anche Allen Ginsberg («nel 1969 chiedemmo al sindaco di donargli le chiavi della città, lui rifiutò, così Allen venne e per protesta si calò i pantaloni davanti alle cascate»). Un altro autore che ama «insieme a Proust, Faulkner, Hemingway, Fitzgerald», è James Joyce, e «Tardi sulla palla» è anche una elegiaca, dolceamara, odissea fra club più o meno famosi, campionati per agonisti agée, sessioni di allenamento, pellegrinaggi fra guru, scienziati e motivatori in alcune delle tante tennis academy sparse negli States, descritte e vissute con competenza e occhio da grande giornalista. I suggerimenti tecnici, il modello dei grandi campioni – Federer osservato in allenamento a Wimbledon… – si mescolano ai fatti, felici o drammatici, della vita quotidiana.
«È stato quando i miei figli sono usciti di casa per andare all’Università che ho iniziato finalmente a prendere lezioni. Il mio istruttore, Kirill, un russo, mi disse che ci sarebbero voluti tre anni solo per arrivare ad essere un tennista ‘shitty’ (merdoso, ndr)… Non mi sono perso d’animo, ho iniziato ad allenarmi con lui tre volte la settimana, a seguire un programma completo in palestra, mentre per tutta la mia vita, facendo di mestiere l’editor, me ne ero stato seduto a leggere. Kirill mi aveva detto che i migliori over 60 avevano alle spalle un passato da giocatori universitari, e che non sarei mai stato forte come loro. Al massimo sarei potuto diventare un buon tennista di club. Ed è quello che sono oggi a 70 anni: un buon tennista di club, che gioca molti doppi».
Da spettatore, Marzorati è decisamente ottimista. «Ero convinto che dopo i grandi il tennis sarebbe sprofondato. Invece ecco Sinner e Alcaraz. La loro partita agli ultimi Us Open è stata fra le più belle a cui ho mai assistito. Potrei restare a guardarli per i prossimi dieci anni, e sono convinto che loro saranno rivali, per i prossimi dieci anni. Mi piace anche Rune: magari esagera con certi comportamenti, ma forse dopo tanti anni di campioni modello abbiamo bisogno di qualche bad boy».
Inseguire il sogno di diventare un tennista di livello, nonostante l’età, non è stato vano. «Più che una medicina è stata un’ossessione. Soffro di artrite, di borsiti alle ginocchia e alle spalle – a volte mi chiedo come farà Nadal a camminare alla mia età… – ma ho imparato un sacco di cose che non sapevo su di me. E sull’invecchiare. Non sono mai stato molto competitivo, da editor non mi preoccupavo se un’altra rivista aveva un articolo che a me mancava, in campo ho scoperto di esserlo. Sono sempre stato impaziente, e il tennis mi ha insegnato la pazienza. Per tutta la vita ho vissuto nella mia testa, e mi piaceva, ora vivo più con il mio corpo. E mi sento bene. Quando presento il mio libro, incontro tante persone che nella seconda parte della loro vita hanno ricominciato a prendersi cura del proprio corpo, che il mezzo sia lo yoga o la corsa, non importa, è un business enorme oggi negli States. Per chi vuole farlo attraverso il tennis il mio consiglio è: prenditi un maestro, e impara a colpire correttamente. Ti infortuni meno, se sai come muoverti bene sul campo».
Trovando, o ritrovando, il giusto tempo sulla palla.