Le lacrime e la disperazione di Yannick Noah sono il simbolo della morte della Coppa Davis. “Che prezzo può avere la fine di un sogno?” si domanda nel giorno in cui lascia, per sempre, il mondo del tennis. Chiunque l'ha amata, per davvero, sperava in un epilogo diverso. Ma la vita non è un film.

A volte ci vorrebbe un regista occulto per disegnare il finale più giusto. Ma la vita, ahinoi, non è un film. Chiunque abbia amato la Coppa Davis l'aveva immaginato diverso, il giorno in cui è stata fatta accomodare sulla sedia elettrica: Dave Haggerty costretto a consegnare l'Insalatiera nelle mani di Yannick Noah, il più onesto e fiero oppositore della riforma decretata in nome del Dio Denaro. Sarebbe stata una rivincita morale, un metaforico schiaffo in faccia a chi pretende che i soldi siano più importanti della passione. Il regista occulto non c'era e la Davis l'hanno vinta i croati, con merito. A capitan Yannick e al suo uomo più fedele, Lucas Pouille, sono rimaste le lacrime di disperazione. Durante le cerimonie di inizio giornata, Noah ha cantato la Marsigliese a squarciagola. Si vedeva che c'era dell'altro, qualcosa che gli sfondava lo sterno fino a sgorgare sotto forma di lacrime. Le stesse lacrime che Pouille, 24 anni appena ma un cuore grande così, gli ha versato sulla spalla poco prima della premiazione. Aveva investito tutto sulla Davis, se l'è vista scivolare via, come acqua tra le dita. “Non cambierò idea, questa è stata la mia ultima partita in Coppa Davis” ha detto tra i singhiozzi. Soltanto chi era accecato dal guadagno non poteva accorgersi di quello che offriva la vecchia coppona: l'anima.

In Davis scendevano in campo prima gli uomini, e poi i giocatori. Adesso ci tocca sentire Albert Costa e Galo Blanco parlare di trattative, di “colloqui” con i top-players per “vendere” la competizione. Ci rendiamo conto? L'evento che più di ogni altro sapeva dare una dimensione umana al nostro sport è diventato un prodotto da “vendere”, con l'ovvio scopo di fare business per cercare di ammortizzare un investimento miliardario. A volte anche gli scrittori più raffinati faticano a tramutare in parole l'enorme complessità delle emozioni umane. Men che meno, ci riesce chi scrive. E allora, per accompagnare questo triste giorno, sono più efficaci le parole di capitan Noah, coerente fino alla fine. A differenza di chi sta zitto o dice quello che gli viene detto di dire, in nome di una Santa Convenienza. “Qui si parla tanto di soldi, ma che prezzo può avere una la possibilità che un bambino venga allo stadio e possa dare la mano a Pouille? Che prezzo può avere un sogno? Questo non succederà a Singapore (?, ndr), ma so che lì c'è molto denaro. Sinceramente, spero che non chiamino Coppa Davis questa nuova competizione: sarebbe una bugia. Giocare al meglio dei tre set non è Coppa Davis, giocare in qualsiasi luogo non è Coppa Davis. Per me, il tennis finisce qui”. Mentre Noah e tutti quelli come lui escono di scena, altri che continueranno a farsi vedere, con le tasche gonfie e la pagnotta garantita, non faranno mai quello che dovrebbero: vergognarsi.

Ti potranno dire che non può esistere niente che non si tocca, o si conta, o si compra. Perché chi è deserto non vuole che qualcosa fiorisca in te.