Lo sport non dovrebbe essere schiavo della tecnologia, ma l'utilizzo di occhio di falco potrebbe essere ancora migliore. E poi: la figura del giudice di sedia è davvero necessaria?
L'avvento di "hawk eye" ha ridimensionato l'importanza del giudice di sedia

Di Federico Ferrero – 6 aprile 2012


Un giorno di tanti anni fa, Jim Courier pronunciò una frase che mi colpì. Gli stavano chiedendo che rapporto avesse con gli arbitri e le loro decisioni. Big Jim assolse li assolse rispondendo, con la solita arguzia, che se lui sbagliava un dritto facile non è che il giudice di linea lo potesse rimproverare; allo stesso modo, quindi, non gli sembrava giusto protestare per una chiamata sbagliata, se fatta in buona fede. Secondo me, però, non è corretto ragionare così. L’idea di uno sport schiavo della tecnologia non mi piace. Ma se abbiamo accettato che la scienza rivoluzionasse gli attrezzi e la preparazione fisica non riesco a capire quale possa essere il principio inviolabile per cui si debba continuare a preferire un giudice umano e fallace a un giudice-macchina (concepito e sorvegliato dall’uomo, ovvio) che annulli o riduca a valori prossimi allo zero gli errori. Perché un conto è se un giocatore fa doppio fallo sul match point a suo sfavore: è un errore suo, ne paga le conseguenze perdendo la partita. Un altro è se il giocatore, sul match point a suo sfavore, tira un ace che viene chiamato fuori e nessuno si accorge dell’incidente. Il fatto che un arbitro, quindi l’elemento terzo, seppur involontariamente condizioni un risultato sportivo è circostanza che ho sempre trovato difficile da giustificare in nome della tradizione: il giudice di sedia c’è sempre stato, va bene. Ma basta appellarsi alla conservazione dei cliché di uno sport antico per digerire le ingiustizie?
 
L’altro giorno il giudice francese Kader Nouni ha risolto con coraggio e competenza una situazione difficile a Miami: sul match point della Sharapova contro la Wozniacki, con Caroline ormai priva di challenge, ha cambiato la decisione di un giudice di linea ritenendo buona la seconda palla di Masha, che ha potuto così ripetere il punto. Wozniacki si è infuriata ma aveva torto: Nouni ci aveva visto bene e la regia ha mostrato, a solo beneficio degli spettatori, che Hawk-eye confermava la correzione di Kader. Altre volte è andata peggio. Lo stesso Nouni, sempre per faccende legate all’occhio elettronico, si era cacciato nei guai due volte: lo scorso anno, a Dubai, durante un match della Radwanska contro la Safarova [1] e all’inizio di questa stagione, quando si prese dell’idiota da David Nalbandian nella partita-fiume giocata agli Australian Open contro John Isner – qui, però, la faccenda era diversa: si trattava di decidere se l’argentino fosse ancora in tempo per chiedere un challenge su un presunto ace di Isner, oppure no [2].
 
Occhio di falco è stata una grande innovazione. Mi vengono ancora i brividi al pensiero di quella partita degli Us Open del 2004 tra Serena e la Capriati, con il giudice Mariana Alves, forse obnubilato da un pasto pesante, che prese una serie di decisioni talmente clamorose e agghiaccianti (quasi tutte a sfavore della Williams, peraltro) da accelerare il processo di accettazione di Hawk-eye nel tennis. Ma non ha risolto il problema. Per prima cosa perché non c’è dappertutto: nei tornei – tutti, a parte Indian Wells – nei quali viene installato solo sugli show court le disparità create dall’applicazione parziale della tecnologia sono evidenti: quante volte sentiamo giocatori affermare cose come «se questa partita si fosse giocata sul centrale non sarebbe successo così»? Quindi non va bene. Ma, se vogliamo, non ci siamo neanche quando Hawk-eye è installato: ogni giocatore ha a disposizione tre ‘sfide’ per set, più una aggiuntiva nel tie-break. Tuttavia il concetto di sfida non si sposa con la giustizia, se non per ragioni di economia. Mi spiego: se hai ragione non dovresti tirare la moneta per sapere se ti verrà riconosciuta o meno. Né è obbligatorio che un giocatore danneggiato sia anche un occhio di lince e sappia quando chiamare il falco. Siamo sicuri, quindi, che sia corretto, almeno in teoria, togliere i challenge al giocatore che sbaglia a chiederli? Certo, direte voi: scendendo nella pratica mica si può concedere libertà di interrompere il gioco in ogni momento, altrimenti le partite diventerebbero eterne e i match sarebbero continuamente fermati, magari anche dolosamente. Né basterebbe un auricolare per tenere in contatto continuo i tecnici di Hawk-eye e il giudice di sedia, così da avere un continuo aiuto tecnologico in caso di chiamate dubbie; a meno di non voler rendere l’arbitro in campo, per quanto riguarda le chiamate, un mero ripetitore di ciò che l’occhio del computer vede, soprattutto nel corso dello scambio.
 
Insomma, la soluzione non è semplice, sempre che non si accetti l’idea di rinunciare del tutto alla figura tradizionale del chair umpire che però è diventato, nei secoli, una sorta di arredo permanente del tennis. Forse giova ricordare che lo era anche il giudice del net, ciononostante sacrificato dall’oggi al domani senza troppi cerimoniali. E senza che nessuno abbia organizzato moti di restaurazione.


[1] Accadde una cosa stranissima: Nouni impedì alla Radwanska di rigiocare un punto dopo che la Safarova aveva colpito un dritto che pareva di poco lungo. Il giudice di linea competente aveva chiamato la palla fuori per poi correggersi, Agnieszka aveva già ribattuto la palla e Nouni annunciò l’overrule: «La palla era buona, rigiocate il punto». La polacca, poco convinta della decisione di Nouni, chiese l’occhio di falco che però le diede torto. E lì Nouni, incredibilmente, diede il punto alla ceca sostenendo che, siccome Aga si era ‘spesa’ un challenge e la palla era buona, non potesse avere due possibilità di vincere il punto: insomma, o taceva e rigiocava il punto, oppure chiedeva il challenge sapendo che avrebbe vinto il punto se la palla fosse risultata effettivamente fuori, ma lo avrebbe perso in caso contrario. Una follia, per la quale la Wta si scusò pubblicamente con Agnieszka (che, però, nel frattempo aveva perso la partita complice anche una crisi di nervi cagionata da quell’episodio…)
 
[2] E la questione andrebbe risolta una volta per tutte: perché certi giocatori possono prendersi tutto il tempo che vogliono prima di decidere se chiedere o meno l’intervento di occhio di falco? Perché, tendenzialmente, ai top player è concesso di farsi una passeggiatina, guardare e riguardare il segno, dare un’occhiata al proprio team e poi scegliere? E tutto questo quando, in situazioni identiche, al peone di turno viene messa fretta («O chiami il falco subito oppure non te lo lascio più chiedere»?) Non esiste una regola, ed è incredibile che ci sia un tale vuoto normativo. C’è solo una prassi, molto difficile da interpretare peraltro: il challenge andrebbe richiesto in continuità con l’azione, senza pause. Ma che significa, che dall’interruzione del gioco in poi bisogna mettersi a correre verso il segno per non interrompere l’azione? Bisogna ballare sul posto finché non si sceglie? Non sarebbe meglio far partire un cronometro e dare, che so, 10 secondi per prendere una decisione?