WIMBLEDON – La commovente storia di Cara Black e papà Don, che la iniziò al tennis sul campo di casa, dove giocavano senza scarpe. Sognava che un giorno i suoi figli vincessero Wimbledon. Lei è diventata mamma ed è tornata dopo aver rigiocato su quel campo.
Di Riccardo Bisti – 29 giugno 2014
Anni fa, i tennisti ispanici se la prendevano con l’erba di Wimbledon, buona soprattutto per “pascolare le mucche”. Poi hanno cambiato mescola e adesso anche loro riescono a “pascolare” allegramente. Non sapevano, i signori in questione, che l’erba aveva permesso a un signore di insegnare tennis ai suoi figli, creando la più grande dinastia dello Zimbabwe, forse addirittura di tutta l’Africa. Ancora oggi, sui prati di Wimbledon, c’è qualcuno che ha imparato così. E’ Cara Black, sorella minore di Byron e Wayne, ottima singolarista e grande doppista, tanto da intascare la bellezza di 10 Slam tra doppio e doppio misto. L’amore per quei prati, e il desiderio di mettere di nuovo piede a Wimbledon, l’hanno spinta ad affrontare una maternità e tornare dopo un anno di stop, con marito e figlio al seguito. Purtroppo non è girata bene nel doppio femminile: in coppio con Sania Mirza, ha perso al secondo turno contro Pavlyuchenkova-Safarova dopo aver sciupato tre matchpoint. Per fortuna c’è ancora il doppio misto, dove fa coppia con Leander Paes. A dispetto dei 76 anni in due, sono tra i favoriti. In fondo, Cara vanta il Career Grand Slam di specialità. Ma vincere sull’erba sarebbe ancora più dolce, perché le ricorderebbe la lussureggiante proprietà di 22 acri a Enterprise Road, ad Harare, dove lei e i suoi fratelli sono cresciuti negli anni 70 e 80. E’ tutto merito di papà Don, che però non l’aveva pensata proprio così. Nella sua proprietà avrebbe voluto creare una piantagione di avocado, ma non ce l’ha fatta e allora ha costruito quattro campi da tennis, rigorosamente in erba. Era destino, perché il tennis è sempre stato importante nella famiglia Black.
IL LETTO DI LAVER ED EMERSON
Quando lo Zimbabwe si chiamava ancora Rhodesia, lui ha giocato a Wimbledon negli anni 50. La migliore prestazione risale al 1956, quando arrivò al terzo turno e fallì quattro matchpoint contro l’australiano Ashley Cooper. “Era innamorato di Wimbledon e dei suoi campi in erba. Diceva sempre di avere un sogno: che uno dei suoi figli, un giorno, vincesse il torneo”. Don Black sposò la signora Velia e, falliti i progetti di agricoltura e l’attività di insegnante, ha costruito il suo All England Club in miniatura. E ha nutrito i campi con un amore eccezionale. Nella proprietà dei Black c’era anche un campo in cemento, circondato da alberi di banana. Una specie di paradiso terrestre in un paese disastrato, dove l’80% della popolazione vive sotto la soglia della povertà e la disoccupazione è salita al 94% dopo alcune disgraziate manovre del governo. Su quei campi dava lezioni a grandi e piccini, rigorosamente a piedi nudi, sottolineando come la disciplina e il duro lavoro fossero più importanti della tecnica pura. Si dedicò soprattutto a Byron e Wayne, mentre c’era la credenza che la vita della tennista non fosse giusta per una ragazza, soprattutto se minuta come Cara. Ma lei era talmente veloce e talentuosa che fu capace di batterlo quando aveva appena 12 anni. Inoltre Harare è in altura, quindi le condizioni di gioco erano tremendamente veloci, così simili a quelle del vecchio Wimbledon, dove ogni scambio da fondocampo era un terno al lotto. Le condizioni erano talmente ideali che alcuni grandi australiani vi si erano recati per allenarsi. Don Black intratteneva i figli raccontando che Rod Laver e Roy Emerson, dopo lunghe sedute di allenamento, dormivano sui letti che poi sarebbero stati loro.
IN MEMORIA DI PAPA'
Dalla players lounge di Wimbledon, Cara si diverte – con un pizzico di emozione – a ricordare la sua infanzia. “La nostra routine era chiara: sveglia alle 5.30 e un’ora di allenamento sul campo in cemento prima di andare a scuola. Poi, nel pomeriggio, tornavamo a casa e si giocava sull’erba. Prima allenamento, poi partita dalle 16.30 alle 18. Anche noi giocavamo a piedi nudi per non rovinare l’erba, a meno che non piovesse”. Don Black adorava la sua terra. Nel 2000, quando lo Zimbabwe ospitò gli Stati Uniti in Coppa Davis, gli chiesero se fosse preoccupato dalla politica di redistribuzione del governo, che intendeva restituire ai cittadini neri i terreni agricoli appartenenti agli eredi dei colonizzatori. Lui fu chiaro: “Morirò qui, qualunque cosa accada”. E fu di parola: quando si ammalò di cancro al colon, diede un mucchio di soldi ai medici di Harare per curarlo, e convinse la madre a non dire nulla ai figli impegnati nel tour. “Se lo avessimo saputo, non avremmo mai permesso che si operasse nello Zimbabwe – dice Cara – lo avremmo portato dove c’erano migliori strutture. Ma lui non voleva disturbare nessuno”. L’operazione andò male perché erano a corto di sangue e papà Black morì a 72 anni, quando ormai stavano per amputargli entrambe le gambe. “Ho pensato che la sua morte sia stata un bene, perché non credo che avrebbe saputo gestire l'invalidità”. La ferita si è riaperta quando Cara ha vinto il primo dei suoi tre titoli a Wimbledon, e ha causato sentimenti contrastanti quando lei e Wayne ghanno vinto il doppio misto nel 2004, dando concretezza al sogno di papà. “Per noi fu molto speciale, ma allo stesso tempo eravamo un po’ tristi”. Poi la vita è andata avanti: Cara ha sposato Brett Stephens, il suo allenatore australiano, e nel 2011 è nato il piccolo Lachlan. Lo ha portato in Zimbabwe a conoscere la nonna, che vive ancora in quella casa costruita 50 anni fa. La proprietà è ancora dei Black, con Wayne che vive nei paraggi. I campi da tennis ci sono ancora, anche se non sono più incontaminati come un tempo. “Una volta ho provato a giocarci con mio marito – racconta Cara Black – e mi sono resa conto di quanto mi mancasse il tennis. Allora ho deciso di riprovarci”. Ne ha parlato col marito, ha ottenuto la sua approvazione sono ripartiti. Peccato per quei tre matchpoint sciupati sabato, nella giornata falcidiata dalla pioggia. “Però le sconfitte non sono più quelle di un tempo, mentre le vittorie sono più speciali. Adesso guardo il tennis da una prospettiva diversa”. E come se giocasse a piedi nudi sull’erba.
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