Di Marco Bucciantini   Simone Bolelli porta appresso la fatica del talento. C’è chi sa esaltarsi, dentro questa fortuna: il fuoriclasse sa impiegare tutta la sua bravura, imporla agli altri quasi con leggerezza e con essa nascondere i difetti. Altri devono combatterci. Sono appesi al talento come pezzi di stoffa su un filo teso al vento. Dipende da loro, e dal vento, che ha strappato via qualcosa a tanti, anche a Simone. Un polso rotto, quando stava crescendo, intorno ai vent’anni. Ma se adesso, mentre parliamo, Bolelli è il numero 105 del mondo e guarda in televisione (“studia”, dice lui) le semifinali di Montecarlo, dove sudano due tennisti che lui ha sconfitto più volte (e con agio) tempo fa (Simon, Berdych), è anche perché non ha saputo resistere, a quel vento. Numero 36 del mondo a 23 anni, dopo un avvicinamento ai migliori fatto bene, un passo alla volta, come chi vuole salire una montagna, saggiamente. «Ma lui vale i primi dieci». Lo disse – e lo ripete ancora – il suo coach di allora, Claudio Pistolesi. E siccome quel pronostico gli è rimasto sulla pelle come una ferita, aggiunge: «Me lo disse anche Tony Roche: questo ragazzo arriva nei primi 10 del mondo». Si può discutere il patriottismo di Pistolesi, non l’occhio di Roche: non è un oracolo qualunque ma uno che nella sua lunga vita sul campo da tennis ha giocato sei finali di Slam e allenato tre numeri uno: Lendl, Rafter, Federer.   Per leggere il resto dell’articolo, acquistate la rivista TENNISBEST Magazine attualmente in edicola
 
Simone Bolelli porta appresso la fatica del talento. C’è chi sa esaltarsi, dentro questa fortuna: il fuoriclasse sa impiegare tutta la sua bravura, imporla agli altri quasi con leggerezza e con essa nascondere i difetti. Altri devono combatterci. Sono appesi al talento come pezzi di stoffa su un filo teso al vento. Dipende da loro, e dal vento, che ha strappato via qualcosa a tanti, anche a Simone. Un polso rotto, quando stava crescendo, intorno ai vent’anni. Ma se adesso, mentre parliamo, Bolelli è il numero 105 del mondo e guarda in televisione (“studia”, dice lui) le semifinali di Montecarlo, dove sudano due tennisti che lui ha sconfitto più volte (e con agio) tempo fa (Simon, Berdych), è anche perché non ha saputo resistere, a quel vento.
Numero 36 del mondo a 23 anni, dopo un avvicinamento ai migliori fatto bene, un passo alla volta, come chi vuole salire una montagna, saggiamente. «Ma lui vale i primi dieci». Lo disse – e lo ripete ancora – il suo coach di allora, Claudio Pistolesi. E siccome quel pronostico gli è rimasto sulla pelle come una ferita, aggiunge: «Me lo disse anche Tony Roche: questo ragazzo arriva nei primi 10 del mondo». Si può discutere il patriottismo di Pistolesi, non l’occhio di Roche: non è un oracolo qualunque ma uno che nella sua lunga vita sul campo da tennis ha giocato sei finali di Slam e allenato tre numeri uno: Lendl, Rafter, Federer.
 
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