Un ricordo del nostro direttore del grande e indimenticabile Rino Tommasi

Gianni Clerici e Rino Tommasi – foto Ray Giubilo

Stanno per iniziare gli Australian Open, e pare di risentirla la canzoncina con cui Gianni e Rino inauguravano l’annata delle telecronache: «Oh, bongo bongo bongo/stare bene solo al Congo/non mi muovo no no/ bingo bango bengo/ molte scuse ma non vengo/io rimango qui…».

Oggi in molti storcerebbero il naso, ma allora era un segnale allegro, scanzonato, un inno recuperato dai ricordi d’infanzia (è la traduzione italiana di una canzone americana, Civilization, portata al successo da noi dalla voce di Nilla Pizzi), la campanella d’inizio di un anno scolastico che pareva una lunga ricreazione. 

Pare di risentirla, e non sai se piangere e sorridere in questo brutto giorno, quello in cui, due anni e mezzo dopo Gianni Clerici, si è spento a Roma Rino Tommasi, l’altra metà di una coppia televisiva indimenticabile e irripetibile, un amico, un collega, ma soprattutto uno dei più grandi giornalisti sportivi italiani. Gianni se ne era andato il giorno dopo la fine del Roland Garros, Rino, allontanato da tempo da una malattia crudele, ci lascia alla vigilia dello Slam australiano.

Rino, che era nato a Verona il 23 febbraio del 1934, è stato tante cose: giornalista, atleta – seconda categoria e campione universitario di tennis («Se sono riuscito a vincerli io, vuol dire che, a differenza degli Usa, il livello dei campionati universitari è bassissimo»), conduttore tv, telecronista, organizzatore di boxe, grandissimo esperto di tennis e di pugilato, ma anche di sport americani in un tempo in cui pochi potevano dire di esserlo – e anche di calcio, sport molto amato che affrontava da razionalissimo tifoso del Verona e della Sanbenedettese e con gli stessi strumenti che riservava agli altri sport: l’obiettività («non si può essere neutrali – diceva – ma si deve essere obiettivi») e le sue impareggiabili statistiche, che nascevano dalla compilazione quotidiana e meticolosa dei suoi quaderni rigorosamente di marca Clairefontaine. 

Arrivava prima di tutti, e iniziava a riempire i quadretti con una grafia minuscola e ordinatissima: palle break salvate, set perduti, ma anche cartellini gialli, espulsioni, rigori realizzati o falliti. 

«Rino, ma come facevate prima di internet?», gli chiese anni fa un giovane collega. «Prima di internet, internet ero io», gli rispose sornione Rino. Che non è mai stato modesto («mai trovato un motivo per esserlo») ma che la sua grande cultura sportiva e la sua competenza la metteva a disposizione di tutti, con generosità e ironia, sapendo benissimo che i numeri e le cifre che produceva, le sue statistiche che negli Usa, dove per decenni fu più apprezzato che da noi, gli valevano il soprannome di ‘Mister Stat’, quelle statistiche nessuno avrebbe saputo leggerle e farle diventare ‘vive’ meglio di lui.

Figlio e nipote di due ‘lunghisti’ di buon valore, il padre Virgilio e lo zio Angelo, laureato in Scienze Politiche con una tesi sull’organizzazione internazionale dello sport, come giornalista aveva iniziato nel 1953 all’agenzia Sportinformazioni, ed è poi stato firma di grandi testate, la Gazzetta dello Sport soprattutto, poi il Messaggero, Il Gazzettino di Venezia, il Mattino di Napoli, le riviste specializzate Tennis Club, da lui fondata negli anni ’70, Matchball e Il Tennis Italiano. Dal 1959 al 1971 è stato anche giovanissimo organizzatore di boxe, in televisione ha debuttato a Tele Capodistria, con le pionieristiche telecronache di tennis a due voci accanto all’inseparabile Clerici, per passare poi a Mediaset – è stato il primo direttore dei servizi sportivi di Canale 5, nel 1981 – quindi  a Tele + e infine a Sky. 

Capitava di trovarselo accanto a Filadelfia, quando ancora il tennis si giocava alla Spectrum, sulla strada di qualche meeting pugilistico a Las Vegas, sempre sul pezzo, attento, curioso. In apparenza burbero, e sempre molto diretto nei giudizi, a volte crudeli, sulla pagina come nelle infinite discussioni che lui tranciava con sicurezza, ma in realtà generoso, corretto, pronto ad aiutare colleghi meno esperti o rapidi di lui. La sua prosa era ordinata e lontana da intellettualismi, ma classica perché capace sempre di inquadrare un tema o una storia con poche, memorabili parole. Clerici lo chiamava ‘Tommy Rhino’ proprio per la sua energia, e la carica, nutrita di cultura sportiva, che sapeva esprimere.  Accanto a Gianni, il suo dioscuro, opposto e complementare, ha svezzato generazioni di spettatori tennistici: lui documentatissimo, rigoroso, ma comunque ironico, tipica espressione di una generazione di giganti, la stessa di Gian Paolo Ormezzano, che prima di tutto si divertivano a fare i giornalisti, Gianni salottiero e divagatore, brillantissimo, apparentemente distratto ma altrettanto puntuale. 

I suoi ‘circoletti rossi’, il suo ‘personalissimo cartellino’, la ‘volée agricola’, sono entrati a far parte del lessico comune dello sport, come certe sue frasi memorabili, certi suoi motti che scolpivano una situazione. «Il gioco di Tizio non dà fastidio a Caio», sentenziava qualcuno. «Non gli darà fastidio, ma gli dà 6-0 6-2…», chiosava Rino. Oppure: «chiamato a giocare di tocco, rivela le sue umili origini». E ancora: «gli arbitri hanno due possibilità: essere d’accordo con me, o avere torto». Con quella granitica considerazione di se stesso ci giocava, Rino, un po’ serio un po’ divertito dal personaggio che inevitabilmente si era costruito addosso, e fino a quando la salute glielo ha permesso, è sempre rimasto un punto di riferimento assoluto, un faro per tutti coloro che hanno condiviso trasferte e sale stampa con lui. 

«Non siamo qui a vendere tappeti», era l’espressione che usava quando doveva ammettere, senza sciocchi aziendalismi o inutili ipocrisie, che un match che stava commentando era brutto, poco interessante. Poteva permetterselo, dall’alto delle sue tredici Olimpiadi seguite sul campo, dei 7 SuperBowl, quasi 150 Slam e oltre 400 telecronache di boxe, degli infiniti incontri di tennis commentati, fin dai tempi in cui era lui a pagarsi le spese di trasferte negli Usa o in Australia. E dei tanti premi ricevuti, come si diceva prima negli Usa che in Italia. Nel 1982 e nel 1991 l’Atp gli ha assegnato il «Tennis Writer of the Year», riconoscimento internazionale senza pari, nel 1993 ha vinto il prestigioso Ron Bookman Media Excellence Award, nel 1979 la Penna d’Oro del Coni, oltre a due premi di Letteratura Sportiva, sempre  del Coni, con i volumi «Storia del tennis» e «La grande boxe». E tantissime volte è apparso sui programmi dei tornei italiani e internazionali, specie negli States dove i suoi pronostici erano ricercatissimi. 

Conosceva tutti e da tutti era apprezzato, capace di intervistare Henri Kissinger per la Gazzetta dello Sport e allo stesso tempo avido spettatore del festival di Sanremo – che seguiva con tanto di quote e scommesse insieme ad un gruppo scelto di amici –  di cui ricordava tutte le canzoni, almeno fino a quelle di fine anni ’60. Ma quando un giorno intonò ‘Luci a San Siro’, tutti i colleghi italiani scoppiarono in un applauso: il repertorio si era aggiornato. E così lo ricorderemo, competentissimo e sorridente, pronto a trasformare lo sport in vita e la vita in un lungo e affascinante torneo.

Alla moglie Virginia e ai figli Guido e Monica le più affettuose condoglianze da tutti noi de Il Tennis Italiano.