Inversione di tendenza nel caso politico Djokovic: a gennaio Novak veniva dipinto come un menefreghista che si credeva al di sopra delle regole, mentre ora i tornei se lo contendono e il governo Usa prova a sfruttarne la probabile assenza allo Us Open per chiedere l’abolizione dell’obbligo vaccinale per i visitatori. A perderci è sempre la politica
“Se posso, gioco. Altrimenti non è la fine del mondo”
Il settimo successo a Wimbledon, dove ha superato Roger Federer nel totale dei titoli Slam (21) e ribadito che quando c’è vince lui, ha confermato la superiorità di Novak Djokovic nei confronti dei diretti concorrenti, in barba a tutti i paradossi del periodo. Il primo è il ranking ATP, che malgrado il successo l’ha viso scivolare al numero 7, il secondo è il rischio che quello di Londra rimanga il suo ultimo Slam addirittura fino al Roland Garros 2023, visto che la sua programmazione sarà in balia delle decisioni dei vari governi in materia di lotta alla pandemia. Le prossime conseguenze potrebbe subirle a breve: se le regole attuali non cambieranno, gli sarà impedito di mettere piede negli Stati Uniti e quindi di disputare lo Us Open, ultimo torneo stagione del Grande Slam. E potrebbe succedere (di nuovo) lo stesso in Australia all’inizio della prossima stagione, distante ma nemmeno troppo. Dopo le controversie di inizio stagione, oggi l’approccio del serbo è chiarissimo. Ha deciso di difendere la propria scelta di non vaccinarsi anche se a rimetterci è solo lui, e l’impressione è che abbia imparato a prenderla con filosofia. Può entrare in un paese? Ci va, gioca e spesso vince. Non può farlo? Sta a casa e si dedica alla famiglia. Non è la fine del mondo. “Non sono vaccinato e non ho in programma di vaccinarmi – ha detto Novak dopo il titolo ai Championships –, quindi la mia presenza a New York dipenderà dalla possibilità che venga rimosso il green pass attualmente obbligatorio per entrare nel paese”. Pare uno scenario improbabile, anche se lui ci spera sul serio. Tanto che a Nick Kyrgios, il quale via Instagram reclamava la cena promessa da “Nole” alla vigilia della finale di Wimbledon, ha dato appuntamento nella Grande Mela.
Djokovic ha detto apertamente di non voler fare del proprio caso una questione politica, e c’è da credergli visto che le faccende australiane l’hanno condizionato non poco nella prima parte della stagione, privandolo della condizione psicologica necessaria per essere il campione di sempre. Quindi, nel dubbio, preferisce tenersi alla larga da situazioni potenzialmente pericolose. Tuttavia, l’impressione è che a farne una questione politica siano diventati i vari governi, come peraltro era successo già a gennaio a Melbourne. Per carità: fra guerra, pandemia, siccità e non solo il mondo ha problemi molto più importanti dei quali preoccuparsi, ma anche il caso Djokovic potrebbe presto riaprirsi e mostrare che la questione Covid-19, nello sport professionistico, è ancora lontano da una soluzione. Nelle scorse ore ha fatto il giro del mondo un tweet di Rand Paul, senatore repubblicano del Kentucky, che si è schierato a favore di Djokovic e contro il governo degli Stati Uniti. “Applaudo la posizione eroica di Novak Djokovic nel difendere la propria libertà medica – ha scritto –, mentre disapprovo la scelta, priva di basi scientifiche, di impedire l’ingresso nel paese a visitatori che hanno già un’immunità naturale”. Ancora più aggressiva la posizione di Drew Springer, senatore del Texas. “Biden non dà a Djokovic la possibilità di partecipare agli Us Open – ha scritto –, ma permette a milioni di immigrati non vaccinati di varcare i confini degli Stati Uniti. Hey, Joe, che differenza fa una persona non vaccinata in più?”. Punti di vista, giusti o sbagliati che siano, che col tennis e Djokovic hanno ben poco a che vedere, e sfruttano la questione solamente per alimentare battaglie politiche.
Prima lo disprezzavano, ora gli tendono la mano
Rispetto a quanto avvenuto sin qui nel 2022, tuttavia, è impossibile non notare una chiara inversione di tendenza. Prima la politica internazionale era sostanzialmente schierata all’unanimità contro Djokovic, dipinto come il potenziale untore che credeva di essere superiore alle regole grazie al palmarès, quando invece – doveroso ricordarlo – aveva agito secondo le norme in vigore a Melbourne. Mentre oggi sono in molti a tendergli la mano, negli Stati Uniti come a Melbourne, dove peraltro in primavera è cambiato il governo, con un nuovo primo ministro (Anthony Albanese, di origini italiane) che pare avere posizioni un tantino meno drastiche sulla questione sanitaria. “Se potrà o meno partecipare all’Australian Open – ha detto Craig Tiley, numero uno di Tennis Australia – non è una decisione che spetta a me, ma Novak è sempre il benvenuto e a Melbourne ha un sacco di tifosi”. Non ha detto nulla di sorprendente, anzi. Ma solo lo scorso gennaio parole simili avrebbe avuto un sapore ben diverso, mentre oggi si inseriscono alla perfezione in un clima molto più disteso. Ora che il caso si è sgonfiato, per tutti Djokovic è tornato quello di prima. Molti credevano che quanto accaduto a Melbourne gli avrebbe rovinato la carriera o almeno macchiato per sempre l’immagine, invece il pubblico è tornato in fretta a trattarlo come ha sempre fatto, i tornei se lo contendono e l’opinione pubblica non gli è più così ostile.
Da ricordare che la legge australiana impedisce per tre anni la concessione di un visto dopo il rigetto del precedente, quindi teoricamente Djokovic non potrebbe entrare nel paese nemmeno se venisse tolto ogni tipo di restrizione. Tuttavia, il ban triennale può cadere per motivi di interesse nazionale, fra i quali la presenza del miglior tennista del mondo all’evento sportivo più importante del paese rientra sicuramente. Ma tutto, anche nel 2023, dipenderà dall’onestà intellettuale di chi siede ai ruoli di potere. Lo scorso gennaio Djokovic è stato solo e soltanto vittima di una decisione politica dovuta alle pressioni di un’opinione pubblica esasperata da mesi di lockdown, pagando il peso del suo cognome (ricordare il caso di Renata Voracova, la ceca che con la stessa esenzione medica di Novak ha ricevuto il via libera per entrare in Australia e ha anche giocato un torneo, prima di essere richiamata e rispedita a casa quando è montato il caso del più illustre collega). Ora che la situazione è più tranquilla, invece, pare che una parte della scena politica internazionale tenti di sfruttare il caso del serbo – il quale si è sempre ben guardato dall’alimentare sentimenti no-vax o movimenti simili – per chiedere l’eliminazione di ogni genere di restrizione. Tuttavia, anche in questo caso non si tratta altro che di semplice (e stucchevole) propaganda politica. Roba che non ha nulla a che vedere col tennis, con Djokovic, con l’obbligo vaccinale e nemmeno col Covid-19.