Il francese più vincente – Noah a parte – dell’era Open, a Parigi ha salutato il tennis e i tanti ammiratori raccolti in una carriera lunga e piena di soddisfazioni. Nella quale i trofei vinti non sono la cosa più importante

Quando a Parigi l’hanno avvicinato per informarlo dell’intenzione di organizzare il suo addio al tennis, Jo-Wilfried Tonga ha declinato senza pensarci un secondo. Non che non di facesse piacere, ma non voleva cedere all’idea che quello contro Casper Ruud al primo turno sarebbe stato sul serio l’ultimo match della sua carriera. Sperava di rivivere per l’ultima volta un Roland Garros da protagonista, come fra 2013 e 2015 quando si regalò due semifinali, ma in realtà sapeva benissimo che la data di scadenza della sua carriera era già superata. Così, consigliato da chi gli vuole bene (e sono tanti, nel tennis come nella vita di tutti i giorni), ha accolto la proposta e ha “firmato” per un addio strappalacrime, all’altezza della seconda carriera più vincente di un francese nell’Era Open, con 18 titoli Atp (fra i quali due Masters 1000), una Coppa Davis, un best ranking al numero 5 del mondo e tanto tanto altro.

SALUTATO DAI GRANDI

Meglio di lui solo Yannick Noah, l’unico che il pubblico d’oltralpe ha amato più del 37enne di Le Mans, figlio di papà Didier, congolese emigrato in Francia negli anni ’70 e di mamma Evelyne. Due che hanno sempre tenuto un profilo basso, facendosi vedere il meno possibile anche quando il loro secondogenito era uno dei pochissimi – insieme a Juan Martin Del Potro e Stan Wawrinka – a dare l’impressione di poter battere i Fab Four anche nei tornei del Grande Slam. Ma per la sua ultima apparizione, sul nuovo Philippe Chatrier che si è riempito non appena la gente si è resa conto che la partita c’era anche nel punteggio, erano presenti entrambi, emozionati come o più di lui, con la moglie Noura e i suoi due bimbi, Shugar e Leelow. Insieme alla famiglia, a rendere omaggio all’addio del mitico Jo, c’erano anche alcuni dei colleghi di una vita, il primo maestro, i pezzi grossi del tennis francese e – con un videomessaggio – persino Federer, Nadal, Djokovic e Murray, desiderosi di applaudire un personaggio carismatico diventato un punto di riferimento per tanti ragazzini, ma soprattutto un uomo che ha sempre vissuto il tennis con gioia. Sia nelle vittorie, celebrate con la sua famosa esultanza, saltellando con le braccia al cielo e i pollici rivolti verso se stesso, sia nelle sconfitte. La sua ultima partita è stata una buona sintesi della sua carriera: c’è stata la lotta, lo spettacolo, il pathos e la sensazione che potesse battere un avversario migliore di lui, ma anche – o soprattutto – l’infortunio alla spalla che gli ha impedito di giocarsela fino alla fine, come a volergli confermare che era davvero giunta l’ora di salutare, e di lasciare finalmente cadere qualche lacrima.

LO SLAM SFIORATO

Nessuno come Tsonga, col suo fisico da pugile (stimolato dalla somiglianza con un giovane Muhammad Ali) e il suo tennis esplosivo con l’accoppiata servizio-diritto, ha fatto credere ai francesi di poter riassaporare la gioia di quel maledetto titolo del Grande Slam che hanno visto una volta sola nell’Era Open, con Noah nell’83. La volta che ci è andato più vicino fu all’Australian Open del 2008, quando era appena dentro ai primi 50 del mondo ma stese tre top-10 lasciando sette game in semifinale a un Nadal annichilito da 50 vincenti, presentandosi in finale con zero da perdere. Vinse il primo set, ma il fato aveva già deciso che quell’anno a Melbourne sarebbe iniziata l’epopea di un certo Novak Djokovic, così non c’è stato verso. Idem nelle cin que semifinali giocate in seguito, due di fila a Wimbledon: nel 2011 rimontò due set a Federer ma si fermò con Djokovic, l’anno dopo con Murray. Senza i Fab Four, o almeno qualcuno dei Fab Four, avrebbe vinto molto di più, idem con un rovescio più solido o un fisico meno ballerino, causa di problemi alle ginocchia operate entrambe, a spalla, schiena e addominali. Noie che qua e là gli sono costate vari pezzetti di carriera, fino a una drastica riduzione dell’attività negli ultimi cinque anni.

IL FUTURO DELLA SUA ACADEMY

Giocava di rado e vinceva ancora meno, così ha deciso di diventare il primo della generazione da quattro top 10 del tennis francese (con Gasquet, Monfils e Simon: ma l’unico top-5 è stato Tsonga) ad appndere la racchetta al chiodo, unendosi alla lista dei neo pensionati di un 2022 che di addii illustri ne ha già collezionati tanti: da Ashleigh Barty a Juan Martin Del Potro, Kevin Anderson, Tommy Robredo, Sam Stosur, Monica Puig e altri/e. Il francese ha chiesto di essere cancellato dal ranking con effetto immediato, sia per non vedere il suo nome indietreggiare lentamente fino a sparire sia per voltare pagina a tutti gli effetti. Si dedicherà pienamente all’All In Academy creata già da qualche tempo insieme all’amico Thierry Ascione, col privilegio di aver salutato senza rimpianti. Poteva vincere di più, ma non sono mai stati i trofei a dirgli chi era. “Di alcuni – ha raccontato – non ricordo nemmeno dove o come li abbia vinti. Per me non hanno grande importanza. Ne ha molta di più sapere di aver rappresentato qualcosa per tanta gente. Negli ultimi tempi molte persone mi hanno detto di essere stato una fonte d’ispirazione. Questo si che non me lo scorderò mai“.