Flavia Pennetta, in questa intervista del nostro direttore pubblicata su La Stampa, parla del suo rapporto con Lea Pericoli, delle serate trascorse insieme in Fed Cup e di quello che non è riuscita a dirle…

foto Ray Giubilo

Flavia Pennetta risponde al telefono e in sottofondo si sentono tipici rumori… da famiglia. Qualcosa che cade, un pianto, un piccolo fracasso molto conosciuto da chi ha figli piccoli. «Stefano, scusa… ti devo richiamare», dice Flavia, dopo poche battute. Cinque minuti, e puntale suona il telefono. «Vabbè, non è successo nulla. Parliamo pure…».

Lea Pericoli una volta ha detto che tu eri la figlia che avrebbe sempre voluto avere.
«Abbiamo sempre avuto un rapporto bellissimo. Non mi ricordo la prima volta che l’ho incontrata, ma non posso dimenticare che mi ha accolto e trattata sempre davvero come una figlia. Fin dalle prime convocazioni in Fed Cup, perché lei era la madrina della squadra».
Vi confidavate?
«Ricordo che una una sera bussai alla porta della sua camera perché dovevo chiederle una cosa. Mi aprì e fu una visione: indossava un pigiama meraviglioso, di seta beige, e sopra una vestaglia altrettanto elegante. Era tardi, le undici di sera, ma lei era semplicemente perfetta. Tanto che le chiesi: ‘Lea, per favore, mi spieghi qual è il tuo segreto?».
Che cosa ti rispose?
«Che non poteva svelare i suoi trucchi… Ma mi raccomandò di avere sempre cura di me stessa. ‘I vestiti che indossi sono importanti!’, mi ripeteva».
Ti dava consigli anche in campo?
«Sì, parlavamo spesso, di tattica, dei doppi. Perché ci capiva e vedeva bene il gioco».
Che cosa ti colpiva in lei?
«Mi affascinavano i suoi racconti. L’infanzia in Africa, la scuola che aveva frequentato in Kenya, le volte che si era trovata a prendere il tè con principi e principesse, i mille aneddoti divertentissimi con Pietrangeli. Sembrava che di vite Lea ne avesse vissute molte più di una».
E’ stata una guida per la vostra generazione?
«E’ sempre stata la signora del tennis italiano, l’immagine del nostro tennis femminile. E lo è rimasta anche quando siamo arrivate io, Francesca Schiavone, Roberta Vinci e Sara Errani, che pure abbiamo vinto molto più di lei. Il suo ruolo nessuno l’ha mai messo in discussione. Anzi, le racconto un aneddoto…»
Volentieri.
«Una decina di anni fa, sarà stato il 2013, mi invitarono ad un evento a Milano. Dopo avevo una cena con degli amici, e la chiamai per salutarla e chiederle se aveva voglia di accompagnarmi e poi fermarsi a cena. Accettò con entusiasmo, e quando arrivammo insieme all’evento, ovviamente tutti i riflettori furono per lei. Era Lea la vera star. Devo dire che fece molto piacere e mi divertì moltissimo. E la cena fu un altro successo».
Era una conversatrice affascinante, Lea. Chiunque abbia avuto la fortuna di condividere un pranzo o una cena con lei si faceva rapire dal suo carisma…
«Infatti i miei amici rimasero incantati dalle sue storie. Poi Lea, così perfetta, ogni tanto si faceva scappare una parola un po’ forte, diciamo così. Da una signora come lei non te lo aspettavi, ma il contrasto era esilarante e irresistibile. ‘Ma Lea, che cosa dici!’, fingevo di protestare. ‘Eh, Flavia, quando ci vuole ci vuole!’».
Lea è stata una persona di successo in tutto quello che ha fatto, non solo come tennista. Giornalista, dirigente sportiva, telecronista, persino attrice. Oggi inevitabilmente tutti parlano dei suoi rivoluzionari gonnellini: è stata un esempio anche per come ha saputo difendere la sua femminilità?
«Ha sempre rivendicato il diritto a non ‘nascondersi’, ed è sempre stata allo stesso livello degli uomini, spesso più avanti. In questo era una pioniera. E quelle mutandine di pizzo furono un colpo di genio. ‘A Wimbledon quell’anno persi al primo turno – mi raccontava – però il giorno dopo ero sulla prima pagina di tutti i giornali’. Oggi, che non c’è più, mi resta un solo rammarico…
Quale?
«Durante gli ultimi Internazionali avrei voluto andarla a trovare, e poi di nuovo tre settimane fa, insieme con una mia amica che la conosceva bene, ci eravamo ripromesse di farlo. Invece la frenesia di questa vita mi ha impedito di salutarla un’ultima volta».
Che cosa avresti voluto dirle?
«Che secondo me sarebbe stata anche una bravissima mamma».