Sei anni esaltanti come preparatore atletico di Djokovic, una vita nello sport di alto livello, ora la chiamata di Sinner. Marco Panichi ci racconta da vicino il fuoriclasse serbo e l’evoluzione del tennis di oggi. Infortuni compresi.
foto Felice Calabrò
Marco Panichi, ex campione italiano di salto in lungo, è il nuovo preparatore di Jannik Sinner. Dal 2018 allo scorso dicembre è stato a fianco di Novak Djokovic, ma è nel tennis da ormai quarant’anni e ha lavorato con tantissimi altri atleti e collaborato con realtà sportive molto diverse: da Francesca Schiavone a Fabio Fognini, da Ivo Karlovic a Simone Bolelli, da Li Na a Daniela Hantuchova, dalla Cina alla Germania, a Israele, a Hong Kong.
Marco, qui si infortunano tutti. Compresi i giovanissimi. Di chi è la colpa?
Non c’è un solo responsabile. Si gioca tanto, ma soprattutto con intensità maggiore rispetto al passato, anche perché i materiali lo permettono. Se un tempo, e neanche troppo tempo fa, c’erano almeno dieci settimane di pausa, l’anno scorso con Nole ne abbiamo avute a disposizione quattro. Una se l’è presa di vacanza, le altre tre le abbiamo organizzate in vari blocchi di preparazione, visto che alla sua età e con la sua classifica poteva permettersi di saltare qualche torneo.
Alcaraz, Rune, Mensik, lo stesso Sinner hanno vent’anni o poco più e sono già alle prese con problemi non banali: dov’è l’errore?
Non c’è un’età per infortunarsi, anche perché nella maggior parte dei casi non si tratta di fatti traumatici, ma di un “overuse”, di una super attività. Alcaraz ha iniziato molto presto e già da 3,4 anni è ad altissimo livello, quindi sottoposto a forze e a una dinamicità importanti. Non è nemmeno questione di masse muscolari, se la struttura generale non è in equilibrio, qualcosa prima o poi succede.
Anche la tecnica influisce?
Si gioca sempre più in “open stance”, perché non c’è tempo per affiancarsi, si scivola anche sul cemento, quindi c’è più carico sulle articolazioni. I movimenti sono diventati più esplosivi e violenti.
Il calendario, si lamentano i giocatori, è troppo fitto di impegni.
Per l’interesse che suscita il tennis, lo sarà sempre di più. Il risultato è che la programmazione è diventata davvero importante. In futuro ci si avvicinerà sempre più all’atletica leggera, dove ci sono due o tre gare l’anno e a quelle devi arrivare per forza in forma. Il corpo ha bisogno di riprendersi. Si salteranno dei tornei, o li si utilizzerà come allenamento. Anche se i grandi campioni non giocano mai per perdere.
L’Arabia sta entrando pesantemente nel tennis: ormai è lo sport più globalizzato?
Sì, e non ci sono più nazioni guida, come in passato l’Australia, gli Usa, la Svezia da Borg in poi. Le competenze ormai le trovi ovunque, nessuno delega più. E pensiamo a cosa potrebbe scatenare in Cina l’esplosione di Zheng.
Preparatori e fisioterapisti italiani sono apprezzati ovunque.
E’ vero. Al mio primo torneo da preparatore, nel 1983, ero l’unico o quasi. Oggi l’italiano è la lingua ufficiale delle players’ lounge di mezzo mondo. Anche perché di giocatori ne abbiamo tanti.
Tu sei stato campione italiano di salto in lungo, Claudio Zimaglia viene dal triplo: i salti si addicono al tennis?
Il lunghista è l’atleta che, come il tennista, deve mettere insieme tante qualità per eccellere, se sei un mezzofondista magari ti manca l’esplosività.
Corpo e mente si parlano?
Le emozioni ci tengono vivi, non possiamo eliminarle. E ogni emozione ha un “trigger” ormonale, un innesco, che devi saper gestire. Il famoso “braccino” deriva da un irrigidimento muscolare. Puoi essere l’atleta più evoluto al mondo dal punto di vista bio-muscolare, ma se non sai gestire le emozioni non riuscirai mai a esaltare le tue qualità.
Tu hai allenato uomini e donne: qual è la differenza?
La differenza, se devo trovarne una, è che con le donne è più impegnativo tutto ciò che è al di fuori del campo, e negli uomini il contrario. Fra le ragazze c’è molta più competitività, vivi in un team “chiuso”, che vive in simbiosi, colazione, pranzo, cena, sempre insieme, molto uniti, mentre i ragazzi sono competitivi in campo ma poi finisce lì. E’ comprensibile, perché spesso le ragazze iniziano a girare molto giovani, hanno bisogno di protezione. Gli uomini devi spingerli di più ad allenarsi, mentre è più facile che le donne vadano in ansia di lavoro.
Qual è il fisico perfetto di un tennista?
Il tennista è un decatleta, deve esser bravo in tutto, non eccellere solo in una cosa. Se Nole fosse estremamente veloce, perderebbe in resistenza, che invece per un tennista è importante. Occorre un mix perfetto. Non è solo una questione muscolare, ma di un impegno fisiologico a 360°. Oggi poi gli scambi sono rapidi, si parla di una media di 12 secondi sulla terra, la metà sul veloce. Si gioca con meno colpi, avere un ottimo servizio è importante. Serve un fisico magro ed elastico, non necessariamente da cestista: Luciano Darderi non è altissimo ma serve attorno ai 200 all’ora. E’ uno sport molto completo che richiede molte doti.
La sensazione è che preparatori fisici e fisioterapisti stiano diventando più importanti dei coach, o dei coach loro stessi…
Diciamo che l’appassionato sta scoprendo il peso specifico di queste figure all’interno del team. Si dice che il tennis è uno sport individuale, ma dietro un campione in realtà c’è un team, come in Formula 1. Ciascun componente ha un suo settore di competenza, ma c’è una zona grigia in cui le competenze si incrociano, devi saper lavorare con gli altri. Il lato mentale poi è sempre più importante, tutti, al di là del proprio settore, devono possedere le abilità necessarie a dare e ricevere informazioni. Non c’è nulla di peggio di tirare ciascuno dalla propria parte.
L’anno scorso spesso Nole in campo si rivolgeva più a te che a Ivanisevic
Il preparatore atletico ha una conoscenza a 360°, mentre dal punto di vista fisiologico u coach non è tenuto ad essere un esperto. In determinati momenti chiedeva a me qualcosa di biomeccanico, su cui avevamo lavorato insieme. Ma si rivolgeva anche al fisioterapista.
Nadal e Djokovic sono al tramonto?
Nadal ha un problema fisico, non riesce ad allenarsi con continuità. E’ una macchina che ha fatto tanti chilometri. Nole è integro, ma ha un calo di motivazioni. Se potessimo unirli, avremmo ancora un supercampione.
Che cosa rende Djokovic speciale come atleta?
In ogni dettaglio vuole stare costantemente un passo avanti agli altri. Nel tipo di preparazione, nella ricerca dei macchinari e delle tecniche che possono permettergli di prepararsi e recuperare più in fretta, nella cura dell’alimentazione.
Non ha però un carattere facile.
Fuori dal campo è un ragazzo meraviglioso, intelligente, divertente. In campo viene fuori il guerriero slavo che è in lui, e che gli serve per “alimentarsi”. Se manca quell’aspetto, si smarrisce un po’.
Come era accaduto dopo gli Australian Open.
Ha perso un po’ di motivazioni. A 37 anni è comprensibile. Quando vede che l’avversario sale di qualità, può sembrare che si lamenti, che esca dal match, ma fisicamente è a posto. Il suo grande obiettivo sono le Olimpiadi, lì credo lo vedremo al massimo.
Le Olimpiadi sono diventate così importanti per il tennis?
Nel 2012 ero con la Cina ai Giochi di Londra. Grandissima esperienza. Un oro olimpico ormai vale uno Slam.
Ci racconti come è lavorare con il tennista più vincente della storia?
Come sostenere un esame universitario al giorno. Ma proprio per questo esaltante. Nole è esigentissimo, con sé e con gli altri. La prima volta che ci siamo incontrati mi ha ha fatto una domanda trabocchetto: “pensi che debba cambiare qualcosa o pensi che vado bene così?”. Detesta la standardizzazione. Arrivano avversari più giovani? Allora serve qualcosa di nuovo per affrontarli.
Come si recupera da certi sforzi estremi?
Tanti giocatori, anche di alto livello, a tarda notte si accontentano di un massaggio. Novak no, segue comunque una procedura che può durare due o tre ore, con il fisioterapista, con particolari pantaloni a compressione che aiutano il recupero. La sua costanza è impressionante.
Il momento più bello che avete vissuto insieme?
La finale di Cincinnati del 2023. Non tanto averla vinta, ma averla giocata così bene, contro un “ragazzino” fortissimo come Alcaraz, in condizioni diaboliche. Che emozione vederli dopo negli spogliatoi, distrutti, fradici di sudore, ma capaci comunque di abbracciarsi.