A colloquio con l’ex coach di Hewitt, e Agassi che oggi è a fianco di Vagnozzi nell’angolo di Sinner. Per renderlo un tennista completo, sapendo che ha già qualità da fuoriclasse
Darren Cahill – che a 56 anni ha lo stesso fisico scattante di quando era n.22 del mondo in singolare e 10 in doppio – ha consigliato, allenato, perfezionato un numero impressionante di campioni. Lleyton Hewitt, Andre Agassi, Simona Halep – tutti e tre portati o riportati al n.1 – Andy Murray, Ana Ivanovic, Fernando Verdasco, Daniela Hantuchova, Soran Cirstea, Amanda Anisimova, senza contare il suo ruolo da talent scout per il programma junior dell’Adidas e i due anni passati come capitano di Coppa Davis per l’Australia. In Inghilterra ha debuttato come «super coach», o se preferite consigliere tecnico di Jannik Sinner, a fianco di Simone Vagnozzi, ed è scontato chiedergli se Jannik gli ricorda qualcuno dei suoi ex assistiti.
«Lleyton Hewitt», risponde senza esitazioni Darren. «Per la sua etica del lavoro, la sua passione, la sua professionalità. Come tennista è diverso, ma ha lo stesso fuoco dentro».
Perché hai accettato di allenarlo? I primi contatti c’erano stati mesi fa.
«Perché è un bravissimo ragazzo, oltre che un grande giocatore. In Australia mi ha impressionato perché sorrideva sempre, era determinato, molto gentile ed educato, e a me piace lavorare con gente così. Non mi interessa il ranking, ma la persona e le potenzialità che vedo in lei».
Jannik è cresciuto in fretta, a Wimbledon è quello che è arrivato più vicino a battere Djokovic. Quanto vale?
«Negli ultimi 12-15 anni il tennis è stato dominato da quattro signori molto forti, forse i più forti di sempre, e per gli altri è stata dura. Potevano andare un po’ avanti, poi però c’erano Roger, Rafa, Novak e anche Andy che fermavano tutti, anche ottimi giocatori. Ora le cose stanno cambiando. Ci sono giovani campioni che crescono, e Jannik è fra quelli che possono vincere negli Slam. E intendo ora, non in futuro, ma proprio ora. A patto che poi continui a migliorarsi per i prossimi dieci anni».
Può riuscirci sul cemento degli Us Open?
«Jannik gioca molto bene sul duro. Ho visto i suoi match agli Australian Open, si muove bene sul cemento e il suo gioco è abbastanza potente per quel tipo di superficie, i campi degli Us Open inoltre sono abbastanza veloci. Il suo servizio sta migliorando, come la transizione verso la rete e il gioco al volo. Ha fatto grandi progressi negli ultimi due anni, prima con Riccardo e poi con Simone. È importante però che ragioni in prospettiva, che sappia che tipo di tennis vuole giocare nel giro di due anni e che faccia di tutto per arrivarci».
Il tuo connazionale Pat Cash dice che a Wimbledon si è già vista la tua ‘mano’ nel suo gioco di volo…
«Non solo io, ma anche Simone, ci stiamo lavorando. Abbiamo le idee chiare ma è Jannik che deve esserne convinto. Sta dando il massimo, a partire dall’allenamento. Sono l’esercizio e la costanza che rendono automatico ciò che non lo è in partenza. Pensiamo a Rafa, a Novak o a Andy: nessuno di loro all’età di Jannik andava volentieri a rete. Hanno sviluppato il loro gioco nel corso degli anni, lavorando sui dettagli e sulle loro qualità».
In questo quanto contano i progressi con la seconda di servizio?
«Il secondo servizio è importantissimo, perché se riesci a renderlo vario ti aiuta anche con il primo, ti fa sentire più libero. Per me è più importante il secondo servizio del primo. Nel tennis non a caso si dice che sei forte quanto è forte il tuo secondo servizio».
Anche sull’erba, dove non aveva mai vinto un match, Jannik è sembrato ormai a suo agio.
«Sull’erba più ci giochi sopra e più ti trovi a tuo agio. I primi match sono stati incredibilmente importanti per lui, ha imparato come muoversi, come stare nel punto, senza essere aggressivo a tutti i costi. Sull’erba Jannik può diventare un giocatore molto pericoloso e lo ha dimostrato nella seconda settimana a Wimbledon. Deve essere solo orgoglioso di ciò che ha fatto».
La tappa a Umago era prevista?
«Umago era un accordo pre esistente. Ma non credo sia stato un problema giocare sulla terra. Prima si è preso un po’ di riposo, si è allenato con Simone,
ora andrà in Canada per giocare Montreal e Cincinnati e poi gli Us Open».
Che tipo di tennista deve essere Jannik? Deve avere uno stile ben definito o adattarlo a seconda delle superfici?
«Per me è un tennista all around molto aggressivo da fondo che deve rifinire le sue qualità a rete. Non è il solo, altri possano fare il suo gioco, ma nessuno oggi può vincere giocando solo un tipo di tennis, devi avere una varietà di opzioni. E Jannik può farlo. Anche Novak ora sta usando di più il rovescio tagliato rispetto al passato, perché sa che andare muro contro muro non è sempre la scelta migliore. Quindi mescola un po’ le carte».
Come è cambiato il ruolo del coach in questi anni?
«Oggi è più facile allenare rispetto a venti anni fa, perché non c’è un solo coach ma i tennisti investono per avere più voci tecniche da ascoltare. Novak, Rafa, Roger e Andy hanno reso questo sport molto professionale. Sono scattati avanti, e gli altri hanno dovuto inseguirli e imparare da loro, capire perché loro erano così forti e fare in modo di migliorare».
Hai parlato con Riccardo Piatti prima di accettare l’incarico?
«Certo. Riccardo è una brava persona, e quello del coach è un business difficile. Se fai bene il tuo lavoro, finisci per autolicenziarti, il tuo compito alla fine è fornire al tennista tutte le informazioni necessarie a cavarsela da solo sfruttando le sue chance. Se lavori bene, normalmente dopo tre o quattro anni è tempo di cambiare. E Riccardo ha fatto un grande lavoro. Lo stesso vale per me: con Simona Halep abbiamo smesso l’anno scorso, aveva bisogno di novità, ed è giusto così. Non importa cosa otterrà Jannik, Riccardo avrà giocato un ruolo importante nella sua carriera. Del resto Jannik aveva già avuto altri coach prima di lui e sapeva che sarebbe diventato un tennista anche prima di trasferirsi a Bordighera».
Fra gli obiettivi di quest’anno ci sono anche le Atp Finals? Che siano a Torino è una motivazione in più?
«Non ci siamo posti un traguardo preciso, un numero, un torneo. Come ho detto Jannik può vincere subito, ma è anche un processo che richiede tempo. Le Atp Finals sono importati, certo, sono un obiettivo per chiunque. Ci sono gli Slam e poi le Finals. Giocarle è un grande onore, che siano a Torino è bellissimo ma lo sarebbe ovunque».
Come va la sintonia con gli italiani?
«In Australia la comunità italiana è fortissima, ho tanti amici italiani che mi hanno subito messaggiato quando hanno saputo del mio incarico. Roma al di fiori degli Slam è sempre stato il mio torneo preferito. Ero con Agassi quando lo ha vinto, e anche con Simona che ci è riuscita dopo due finali perse, per loro è stato importante. Amo il calore, la gente, il cibo e anche la follia che c’è a Roma».