Il 25 ottobre del 2008 moriva a 28 anni Federico Luzzi. Stroncato da una polmonite sopraggiunta a causa di una leucemia fulminante…



 

di Cristian Sonzogni – foto Getty Images

Millenovecentonovantasei, campo sintetico della struttura di Milano 3 a Basiglio, primo turno di qualificazioni dell’Atp di Milano. Si affrontano Marc-Kevin Goellner, numero 74 al mondo, e un giovane italiano che promette bene, Federico Luzzi. Spettatori pochi, ma quei pochi si divertono. Fede ha appena compiuto 16 anni, è gracilino e non ha certo il punch del tedesco nato a Rio (che di lì a qualche mese avrebbe battuto Ferreira, Rios, Edberg, Corretja e qualche altro campione), ma compensa con agonismo e fantasia. Così tra recuperi e giocate improbabili, l’aretino porta a casa un set, mette paura al rivale ma poi si deve arrendere: 6-3 5-7 6-3. Ma chi torna a casa in quella umida serata milanese spera davvero che quella appena andata in scena non sia soltanto un’illusione.

Era la prima partita da professionista per Federico Luzzi, che una feroce malattia ci ha sottratto all’età di 28 anni nel giro di una settimana, negandogli persino il diritto di lottare. Un ragazzo che è stato davvero, dalla metà degli Anni Novanta agli inizi del Nuovo Millennio, quello su cui sono state riposte le maggiori speranze nell’ambiente del tennis tricolore. Non sarebbe onesto dire che le abbia mantenute, e i perché li lasciamo alle persone che più lo hanno seguito sui campi, come il maestro storico Carlo Pini, Gianluca Rinaldini e Corrado Barazzutti. Vale la pena ricordare invece quanto di buono Luzzi ha concesso ai suoi fan, non pochi considerata la posizione nel ranking, mai decollata oltre il numero 92. Ma bastava vederlo giocare perché un intenditore potesse ammirare del talento, del genio persino, insieme alla consueta sregolatezza di quelli che sanno fare troppe cose e spesso si aggrovigliano nelle loro tante idee. Potevi vederlo remare da fondo con recuperi impossibili, come fare regolarmente serveandvolley, o ancora giocare per il puro gusto di divertirsi e sfiancare il rivale di turno a forza di palle corte, quando nel tour c’era gente che per ottenere un quindici avrebbe pagato di tasca propria. Luzzi, invece, no.

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di Cristian Sonzogni – foto Ettore Ferreri

Tutto gli si può imputare fuorché di essere stato un giocatore “normale” o peggio monotono. Non a caso ciò che nel gergo dei tennisti italiani (e non solo) viene chiamato ‘Luzzata’ è un colpo fuori dalla norma, uno ‘special shot’. Quei colpi con cui non vinci le partite, ma che ti fanno guadagnare punti col pubblico. Del resto, non sarebbe nemmeno giusto limitare la sua carriera a questa peculiarità. Perché troppo spesso ci si dimentica che per entrare nei top 100 al mondo, un ragazzo deve lavorare duro e deve comunque soffrire, per quanto talento possa avere. Fede per un periodo lo capì, e i risultati arrivarono. Quelli più eclatanti nel 2001, dopo che fin lì aveva messo in cascina soltanto quattro tappe di satelliti in Italia. Invece in quell’anno l’esplosione: prima una vittoria e una finale challenger (a Bombay e Singapore), poi i quarti a Barcellona e infine gli ottavi a Roma, con le vittorie su Clement e Arazi, entrambi top 20 all’epoca, prima della sconfitta con Diaz. Proprio gli Internazionali fecero conoscere all’Italia il talento di Luzzi, che entusiasmò mettendo in scena tutto il suo repertorio e una carica agonistica straordinaria, ma che purtroppo non seppe confermarsi. Sempre nel 2001 arrivò l’inattesa chiamata in Davis per la partita con la Finlandia. Partita storica per certi versi per via del clamoroso rifiuto dei nostri migliori, in lotta con la Fit. Fede invece decise di rispondere alla chiamata di Barazzutti (suo coach per tre anni), giocò e vinse contro Liukko per 14-12 al quinto set quello che resta, ad oggi, l’incontro più lungo di un azzurro in Coppa: 4 ore e 35 minuti. Quindi a fine stagione un’altra vittoria challenger, a Brindisi, e ancora la Davis contro la Croazia di Ljubicic e Ivanisevic. Poi la discesa nel ranking, i problemi fisici (in particolare alla spalla) e le tante delusioni, vagabondando per futures e satelliti, che Fede giocava ma in cuor suo, si può starne certi, sentiva di non meritare. Smaniava per esibirsi su palcoscenici di lusso, il toscano, e qualche volta ci riuscì ancora, malgrado la cattiva sorte. Tornò a frequentare con costanza il tour maggiore soltanto nel 2005, prima con una qualificazione in Australia (ko in cinque set con Baghdatis), poi con una fantastica partita a Buenos Aires di fronte all’idolo di casa Gaudio, cui nascose la palla per un set.

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di Cristian Sonzogni – foto Ettore Ferreri

Sempre in quell’anno battè anche Corretja sulla terra di Valencia, ma la sua stagione più continua fu forse nel 2006, seppur condita da tanti tornei minori, oltre che da un secondo turno a Melbourne: spiccano le semi a Belgrado, Rimini, San Marino e Barcellona e la finale a Como. In quel periodo (mentre si allenava nel Blue Team di Arezzo) tornò su livelli di classifica più accettabili, e in avvio di 2007 giocò un gran torneo a Cherbourg, dominando i rivali e non cedendo nemmeno un set. A Monte-Carlo, forse, l’evento che dopo tanti anni tornò a dargli qualche soddisfazione ‘vera’. Sul centrale contro Nalbandian, per un set, si inventò le sue consuete prodezze cancellando l’argentino, che poi però vinse in tre. A chiudere quell’anno una nuova convocazione in Davis per la sfida col Lussemburgo ad Alghero, con un match giocato e vinto con Bram a risultato acquisito. E’ l’ultimo sussulto prima della vicenda scommesse e della squalifica di 200 giorni. Un banale errore pagato troppo caro.

Noi, però, a questo punto, preferiamo fare un passo indietro, approdando con la memoria ad una carriera giovanile che fu ricca di successi, tra cui spiccano la finale all’Avvenire nel 1995 e la vittoria nella Coppa Lambertenghi del 1992. Tra i 14 e i 16 anni in particolare, quando sponsor importanti cominciarono a mettergli gli occhi addosso, Federico vinse tutto ciò che poteva: campionati nazionali, europei, mondiali. Salvo poi scoprire, come disse in un’intervista alla nostra rivista nel 2005, che quei risultati in fondo non contavano nulla, perché il tennis vero era quello dei ‘pro’. E se c’è un insegnamento che possa restare utile, in una vita e in una carriera mozzate così presto, in maniera tanto tragica e ingiusta, magari è proprio questo. Dovessimo mai ritrovarci ad avere tra le mani un altro talento come Luzzi, se possibile, evitiamogli la stessa strada, le stesse illusioni, gli stessi errori. Almeno per quello che si può, prima che si metta in mezzo il destino a dire l’ultima parola.

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di Corrado Barazzutti – foto Max Turrini

Con Federico ho vissuto tre anni molto intensi. Da un approccio iniziale difficile a una convivenza produttiva, durante la quale entrambi abbiamo imparato come rapportarci l’uno verso l’altro. Ricordo che nel corso di questo periodo ho imparato a conoscere bene Fede anche fuori dal campo, e posso dire che non era come appariva al pubblico. Aveva le sue fragilità, le sue incertezze, come tutti del resto, ma una personalità molto forte. Era difficile entrare nelle sue grazie, ma una volta ottenuto l’obiettivo si poteva star tranquilli, sapendo che lui non avrebbe tradito. Al di là del lato puramente sportivo, dunque, è emerso un rispetto e persino un affetto che è difficile trovare in un rapporto lavorativo, dovuto a quei tre anni nei quali ho passato più tempo con Fede che con le mie stesse figlie.

Insieme siamo riusciti a formare una squadra, e forse sono diventato quello di cui lui, sempre alla ricerca di punti di riferimento, aveva bisogno. Insieme ci siamo tolti delle grandi soddisfazioni, e prima dei bei risultati di Roma e Barcellona, sempre nel 2001 lo convocai in Davis per quella famosa partita con la Finlandia. E lui vinse a modo suo. Soffrendo e lottando fino a portare a casa il match con Liukko per 14-12 al quinto set. Federico è stato un bel giocatore di talento, fantasioso, con un tennis divertente. Raro da trovare nel tour. Ma è stato soprattutto un ragazzo che con il suo carattere, la sua forte personalità, la sua simpatia e le sue “luzzate”, si è fatto voler bene da molti di noi, quelli che lo conoscevano bene e che non lo dimenticheranno mai.

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di Gianluca Rinaldini – foto Archivio Tennis Italiano

Capii immediatamente che aveva dentro di sè un carattere straordinario quando Paolo Bertolucci ed io decidemmo di convocarlo (era il 1992) al Centro tecnico nazionale di Cesenatico. Fu una convocazione decisa con un anno di anticipo rispetto alla prassi, ma ampiamente motivata. E lui ci fece subito capire che avevamo in mano un vero talento, un puledro di razza che come tale andava allevato. Sono sempre stato convinto che Fede sarebbe diventato il solo giocatore italiano, dopo Adriano Panatta, capace di cambiare le sorti del nostro tennis. Capace cioè di rivitalizzarlo, ciò non in ragione delle sue pur notevoli capacità tecniche e tattiche, ma per via del carisma che gli aveva regalato Madre Natura e, insieme, di quella sorta di istrionismo che sapeva sprigionare. Pochi giorni dopo il suo arrivo a Cesenatico cominciammo non solo a lavorare fianco a fianco, ma a vivere a contatto di gomito la vita di ogni giorno, a dimostrazione del fatto che si andava consolidando tra noi un feeling a tutto tondo, fatto di reciproco rispetto e reciproca fiducia, che sempre più si fortificò giorno dopo giorno. Fede dimostrò di essere un vincente anche nelle occasioni in cui tutto sembrava essere più grande di lui. Nelle settimane e nei mesi seguenti ne ebbi la prova da alcune partite vinte in modo rocambolesco, così come ne ebbi conferma negli anni successivi: ne fu testimonianza, ad esempio, nel 1995 quella semifinale che riuscì a far sua all’Avvenire quando tutto sembrava perduto. Era un vincente nato, uno che voleva vincere a tutti i costi anche giocando a carte. Dentro di lui ardeva il fuoco della vittoria, sia che giocasse a calcio, a ping pong oppure a tennis. Persino quando i ragazzi del Centro si ritrovavano nella saletta TV era lui ad averla vinta nella scelta del programma. Ciò spiega perché negli allenamenti atletici quotidiani, che svolgeva col professor Marino Rabitti, per ottenere da lui il miglior rendimento dovevamo sempre metterlo in competizione con se stesso e con gli altri ragazzi.

Tutto questo costituiva per lui uno stimolo vitale. Negli anni del tennis giovanile, cioè sino ai 18, vinse praticamente tutto ma, forse, ci si dimenticò che, di pari passo col suo tennis, cioè mentre continuava a crescere dal punto di vista tecnico, era indispensabile farlo crescere altrettanto dal punto di vista atletico. Sul piano tecnico una sua straordinaria prerogativa era la capacità di lettura della partita: lui sapeva sempre con tre colpi d’anticipo quel che sul campo sarebbe successo tre colpi dopo.  Ma sul piano fisico gli sarebbe stato necessario un tempo maggiore per poter costruire migliori fondamenta. Purtroppo ciò non fu possibile per il fatto che Fede doveva rincorrere tutti i maggiori traguardi giovanili. Quegli obiettivi da raggiungere fecero dimenticare che era anche necessario guardare avanti, agli imminenti anni del tennis professionistico da affrontare con una adeguata costruzione atletica. E questo è sempre stato per me motivo di forte rammarico. A Fede piaceva la vita, la vita intesa nel senso limpido e autentico della parola. Per questo motivo non era ancora pronto a pensare solo al tennis come, invece, già allora sarebbe stato necessario. Durante i tornei era sempre pronto ad inseguire la gonnellina di una coetanea (vero Elena, Flavia, Tati?…). Ed io, devo confessare, in qualche occasione non mi sottrassi ad innocenti complicità perché mi rendevo conto che per lui si trattava del naturale modo di essere. V’era una sorta di linfa vitale che non poteva essergli negata se poi pretendevi da lui un sempre maggior rendimento in campo e gli richiedevi ulteriori sacrifici negli allenamenti.

Era, insomma, una sorta di ‘do ut des’. Pur nell’ambito di un gruppo di ragazzi davvero straordinario (Braccio, Poto, Florian, Ciro, Galimba, Max, Capo), con Fede entrai in totale sintonia e tra di noi si stabilì un rapporto che mi impegnava, non esagero, 24 ore su 24. Perché lui non ti dava mai tregua, aveva sempre qualcosa di nuovo e di originale da sottoporre al tuo parere. E pretendeva, sempre e comunque, una risposta. Proprio come i cavalli di razza. Quando il Centro tecnico di Cesenatico fu costretto a chiudere i battenti (che errore imperdonabile, quello) il mio rapporto con Federico non si spezzò, tutt’altro. Era già un giovane uomo, e stava muovendo i primi importanti passi, irti di insidie, per diventare un “giocatore”, quando venne meno la quotidianità del lavoro comune. Ma non venne meno una forte e costante collaborazione a distanza, che, spesso e volentieri, ma non solo, si materializzava quando Chicco era assalito dai suoi dubbi, oppure nei momenti di sconforto dettati dagli ostacoli e dalle insidie che la scalata al tennis professionistico impone senza tregua e che sente soprattutto un puledro di razza. Allora furono Paolo Bertolucci e Mario Belardinelli ad esortarmi, continuamente, a non mollare questa grande sfida, iniziata sei anni prima, perché come me credevano ciecamente nelle straordinarie qualità tecniche e istrioniche di un ragazzo che, raramente, un tecnico ha la fortuna di ricevere dalle mani di Madre Natura. Dopo le prime asperità da superare vennero ben presto i primi infortuni. Fede faticava ad affrontare problemi e guai fisici, anche perché il piacere di vivere prendeva talvolta il sopravvento sulla dura fatica che impone il (noioso) lavoro quotidiano. Come dicevo, il nostro rapporto non si interruppe mai.

Continuai a seguirlo nei tornei italiani che avevo l’opportunità di vedere (l’ultima occasione fu, la scorsa estate, a San Marino), e continuai a incontrarlo spesso a casa mia, ma da qui in poi sono altre persone che, eventualmente, devono subentrare nel ricordo di Fede. L’assurdità di questa tragedia è stata ed è, anche mentre scrivo queste righe, più forte di me. Posso solo trarre una minima consolazione dal fatto di aver vissuto una magnifica esperienza che vorrei augurare ad ogni tecnico. Una straordinaria esperienza, sia in campo che fuori, compiuta con un ragazzo splendido che continuamente ti stupiva, ti assorbiva, ti coinvolgeva con il suo grande talento, il suo acume, la sua vivacità mentale, la sua scaltrezza, la sua furbizia. Sono certo che ancora una volta Fede, se solo avesse avuto una sola possibilità di lottare, avrebbe vinto perché chi possiede le sue qualità sa battersi da par suo contro le avversità. Questa volta, però, il fato ha preteso di vincere senza concedere la benché minima chance e un pezzo importante di me stesso se n’è andato con uno strappo violento. Ma Fede continuerà ad essere sempre presente nel mio cuore e continuerà a chiamarmi sul cellulare con il solito preambolo: “Ciao, Jolly!”.

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