di Jacopo Lo Monaco – foto Getty Images
Ho iniziato a leggere oggi il libro scritto da Luca Bottazzi assieme a Carlo Rossi e Michele Pisaturo “Dal Bambino al Campione di se stesso”. A pagina 32 si fa riferimento alle pause tra un punto e l’altro e ai cambi di campo:
“Gli intervalli, se ben gestiti, permettono al giocatore di rilassarsi, di ripristinare il giusto grado di concentrazione e di attivazione, per cercare le soluzioni più opportune. Se invece il tennista non impara a sfruttare proficuamente le pause, si troverà in difficoltà crescenti e tendenzialmente peggiorerà le situazioni”.
Mentre leggevo queste frasi pensavo al match di sabato a Dubai tra Caroline Wozniacki e Jelena Jankovic. Nei primi tre game la danese gioca a un ritmo molto basso e viene sovrastata da JJ: 0-3. Chiede al papà di raggiungerla al cambio campo e la partita cambia. Caroline inizia a tirare più forte, a cercare di prendere l’iniziativa del gioco con maggiore frequenza e il match diviene più equilibrato.
La Wozniacki si fida ciecamente del padre che, a seconda del momento della partita e dello stato mentale della figlia, interviene con toni più o meno dolci (non conosco il polacco quindi non ho la più pallida idea di quello che le sta dicendo ma il tono della voce lo si può interpretare). Piotr conosce benissimo Caroline e i suoi interventi hanno quasi sempre un effetto positivo su di lei. Non credo sia casuale che la Wozniacki abbia vinto sei degli ultimi nove tornei Wta disputati (tra l’altro, a mio avviso, la sconfitta di Cincinnati è stata causata soprattutto dalla stanchezza accumulata a Copenhagen e dal volo che l’ha portata negli USA mentre quella con la Cibulkova a Sydney dal fatto che si doveva ancora abituare alla nuova racchetta) mentre abbia perso in semifinale nei due Slam (quando non può contare sul papà). Sono certo che se ci fosse stato Piotr al suo fianco a NY e a Melbourne Caroline avrebbe reagito in maniera diversa ai vari momenti di difficoltà affrontati con Zvonareva e Li.
Pensando a Caroline/Piotr mi è venuto in mente il cambio-campo di ieri Azarenka/Sumik. Nonostante le parole morbidissime e incoraggianti del suo coach non c’era bisogno di essere uno psicologo per capire che la bielorussa non lo stavo ascoltando. Non so il motivo ma la Azarenka non segue il suo allenatore e tutte le volte che l’ho vista giocare quest’anno ho avuto l’impressione che fosse vuota, che non le importasse l’esito della partita che stava disputando.
Infine, Ana Ivanovic. Il mese di novembre scorso aveva detto: “Ho veramente bisogno di un allenatore a tempo pieno che mi possa seguire in tutti i tornei e durante gli allenamenti. Heinz (Gunthardt) ha una famiglia oltre ad altri impegni che aveva preso da tempo e non può seguirmi con la continuità che necessito”.
Poche settimane fa, dopo aver interrotto il suo rapporto di lavoro con Antonio Van Grichen, ha dichiarato: “Sono nella fase della mia carriera in cui so quali sono i miei obiettivi e so che devo lavorare duramente per raggiungerli. Non ho bisogno di una persona che mi ripeta in continuazione quello che devo fare. Non ho più 15 anni”.
Dopo averla vista giocare con Patty Schnyder a Dubai mi è sembrato chiaro che abbia assoluto bisogno di una persona, ma quella giusta, che la possa aiutare in partita e in allenamento, perché mi è sembrata estremamente confusa nelle scelte da fare durante il match.
Nel tornei Wta si ha la possibilità/fortuna di poter chiedere l’aiuto “da casa”; l’importante è avere la persona “giusta”, di cui uno si fida, a bordocampo se non si è ancora pronti a “gestire bene gli intervalli”.
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dal Blog “Linea di fondo“
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