Jerzy Janowicz, gigante polacco di oltre due metri, è stato la sorpresa dell’ultimo Masters 1000 di Parigi Bercy dove ha raggiunto la finale …

di Andrea Merlo – foto Getty Images

Qualcuno se ne ricorderà come un ragazzone ombroso che percorreva i corridoi silenziosi del Forum Sport Center di Courmayeur, occupandone l'intera larghezza. Qualcun'altro ne conserverà sprazzi di tennis cristallino, esplosivo e vincente, peccato per la grinta impetuosa e poco calibrata. Qualcuno, semplicemente, non se ne ricorderà affatto e lo vedrà solcare il campo di Parigi Bercy come un viso scorto per la prima volta.

Correva l'anno 2011, un inverno non particolarmente rigido ma ricco di neve.

Jerzy Janowicz, gigante polacco di oltre due metri, aveva il volto scolpito nella pietra e gli occhi di ghiaccio. Non parlava con nessuno, aveva l'espressione determinata, l’atteggiamento quasi sfrontato, e un solco in mezzo alla fronte che lo faceva apparire ancor più minaccioso. Oggi è quasi irriconoscibile, così mansueto e allegro, così incline alla chiacchiera. La prima, e sin'ora unica , edizione del Courmayeur Open Challenger aveva visto anche lui tra i protagonisti, sebbene la sua mole fosse stata offuscata da nomi più altisonanti.

Complice il calendario, in Valle d'Aosta erano arrivati Nicolas Mahut, Gilles Muller, Olivier Rochus e Simone Bolelli, certo non Roger Federer ma calibri sufficienti per attirare l'attenzione dei riflettori di un appuntamento con montepremi di 30.000$. E così il lungagnone di Lodz passeggiava indisturbato tra la SPA e i campi di allenamento, senza essere degnato di uno sguardo.

Sul campo faceva male già allora, di questo se ne erano resi conto quasi tutti: colpiva con una potenza inaudita. Sarà stato per sfogare la propria indole selvatica,  retaggio di fastidi e patimenti puerili, il desiderio di riscatto o addirittura vendetta, per i genitori che avevano rinunciato per lui a qualsiasi eccesso, tranne lo stretto necessario per continuare una vita dignitosa. Con la prima di servizio era devastante, quando entrava, inoltre sapeva rispondere e giocare di ricamo, merce rara.

C’era materiale su cui lavorare, sostanza grezza da plasmare per un bravo coach. Difettava tuttavia nella gestione del match, nelle varianti tattiche: tutta quella foga doveva essere opportunamente incanalata per poter risultare devastante. Aveva la presupponenza tipica di chi non era ancora arrivato eppur si sentiva forte, un pregio, per chi lotta ogni settimana nel seminterrato del circuito.

Il tennis, si sa, spesso non ripaga l'imperituro amore di chi lo pratica, di chi sale e scende dalle economy delle compagnie low cost, dorme in macchina o negli ostelli, si allena in palestre senza riscaldamento e vede i grandi tornei solo dalle porte anguste delle qualificazioni e dalla plastica degli imballaggi del campo centrale. Janowicz poteva essere uno di quei tanti giovani di belle speranze persi nel nulla, meteore in un firmamento indifferente e statico.

Invece la sorte aveva altri piani per lui e fu così che il gigante polacco iniziò la sua risalita, dapprima lenta, poi sempre più rapida, a colpi di servizio e diritto. A Courmayeur raggiunse le semifinali da numero centocinquantasette delle classifiche ATP, fermato da un Signor giocatore di nome Gilles Muller, un altro che ha visto poche aurore dalla balconata dei migliori, nonostante un talento non comune.

Janowicz all’inizio della stagione 2012 si trovava ancora a barcamenarsi tra Future e Challenger, e sebbene avesse migliorato di parecchio il proprio ranking era ancora impantanato nella melma di metà classifica, un avversario spesso insuperabile. Il primo acuto è stato a Wimbledon, tre turni di qualificazioni superati e poi diritto fino al terzo turno, quando a fermarlo c’era voluta tutta l’esperienza di Florian Mayer. Un bel positivo certo, una di quelle medaglie da lustrare a fine carriera, magari in cerca di un posto come allenatore o direttore tecnico di un circolo, ma ancora non abbastanza per spiccare il volo. Ecco allora spuntare l’occasione vera, quella capace di cambiare una vita.

L’anno era propizio, con le Olimpiadi a compattare e rendere ancora meno gestibile un calendario fitto come non mai d’impegni. Parigi Bercy era ritornato ad essere la cenerentola dei Master 1000, con i big impegnati in atti di cortese avidità, un fuggi fuggi generale in direzione Londra, una lotta a chi avrebbe perso prima. Janowicz ha comunque conquistato una meritata finale e lo scalpo di Murray, ma è doveroso specificare che, se una volta terminato Bercy e raggiunta la ventiseiesima posizione mondiale, il buon Jerzy fosse andato ad accendere un certo nella non lontana cattedrale di Notre Dame, un buon motivo ci sarebbe stato.