Da Parigi, Federico Mariani – foto Getty Images
Gioca-illude-perde. Un percorso talmente frequente e ripetuto fedelmente da sfociare nella banalità acquisendo le tristi tinte della routine. Grigor Dimitrov perde l’ennesima partita dopo averla vinta due o forse tre volte. Grigor Dimitrov perde l’ennesimo treno di quello che sarebbe potuto essere e che, invece, ancora una volta non è.
Il giocatore a beneficiare dell’ormai canonico tracollo bulgaro in versione quando-il-gioco-si-fa-duro-perdo è Victor Troicki, onesto mestierante da picchi in top-20 e poco altro, specie sulla terra battuta. Gente contro la quale il Dio del tennis aveva programmato Dimitrov per vincere, ma anche gente contro la quale Dimitrov avrebbe anche potuto evitare di fronteggiare al primo turno se solo non fosse uscito abbastanza clamorosamente dai primi trenta giocatori del mondo.
Il venticinquenne di Haskovo va per due volte avanti di un set, conduce buona parte della quarta frazione sfiorando più volte il colpo del k.o., fallisce due palle break sul 5-5 e poi crolla, come troppo sovente sul più bello, come troppo sovente in modo fragoroso. Molti, quasi tutti, cercano di sostenerlo nell’intimità del campo 3, sperando in una reazione che ovviamente non c’è. Si gioca su un campo cosiddetto secondario e si è talmente vicini da poter sentire i pensieri dei giocatori. Sotto 1-4 nel quinto set Dimitrov prova a incitarsi dopo un meraviglioso lob vincente, ma resta solo una perla in un deserto abbastanza inquietante dove Troicki ormai ha le chiavi della partita e, col servizio a disposizione, fa il bello e il cattivo tempo. La sofferenza del bulgaro si interrompe col 6-3 finale, cristallizzato dopo 3 ore e 47 minuti. Grigor prima di abbandonare Parigi – dove una vittoria manca addirittura dal 2013 con tre eliminazioni consecutive al primo turno – lancia polsino e asciugamano ai soliti ragazzi alla disperata ricerca di un cimelio. È anche da questi piccoli gesti che si intravedono le (basse) aspettative che un giocatore ha di sé.
In conferenza stampa Dimitrov si presenta con uno scintillante Rolex d’oro al polso e una faccia troppo soddisfatta per chi è reduce dall’ennesima sconfitta precoce e cocente. Parla di dettagli, fortuna, di avversari che fanno ace quando più conta, di non saper a cosa imputare le troppe sconfitte. Si dice, però, sereno e ottimista, consapevole di star lavorando bene. E molto probabilmente crede anche a tutto ciò, purtroppo.
Non è bastato il tanto agognato avvicendamento in panchina con l’allontanamento del palestrato Roger Rasheed e l’approdo del promettente Franco Davin, uno che condusse Del Potro alla vittoria di uno Slam in un’epoca – il 2009 – in cui trionfare in un Major era un’impresa molto vicina al proibitivo. Non è bastata neanche l’esplosione di nervi registrata a Istanbul e lo “schiaffo” romano subito da Zverev a destare Dimitrov. Il servizio devastante del biennio 2013-2014 non è che un pallido ricordo, il rovescio è tanto sensuale nell’esecuzione quanto fragile nell’efficacia, il dritto pure non schiocca più come qualche stagione fa e, soprattutto, viene mortificato da una posizione di eccessiva passività che uno dotato del suo talento e delle sue armi non può permettersi. Il tennis di Dimitrov somiglia a un castello di carte, bello e intrigante ma troppo fragile per stare in piedi. Le domande, come le sconfitte, crescono vertiginosamente, mentre le risposte non ci sono più.
Ha già avuto molte sfumature Grigor Dimitrov, in una carriera pur relativamente breve. È stato presentato con un avventato eccesso di generosità come erede designato di Roger Federer, poi si è corretto il tiro sul suo conto e si è passati a definirlo prima uno Slammer, poi ancora un prossimo top-ten, poi un bleff e poi un flop. E ora? Ora pare che Grigor abbia finito le sfumature con il solo grigio rimasto a dipingere il suo futuro. Grigio come il cielo di Parigi. Grigio come l’ennesima sconfitta. Grigio come il suo umore, o forse no.