Il sesto centro al Masters, portato a casa senza sconfitte, rafforza l’identità, tecnica e umana, di un campione fra i più grandi per visione tattica, intelligenza e coerenza delle scelte: fuori e dentro il campo

«Clear Round» è il termine con cui gli amanti degli inglesismi a tutti i costi definiscono una prestazione portata a compimento senza intoppi. Adottata dall’ippica, per estensione la definizione identifica un qualsiasi percorso a ostacoli compiuto senza incorrere in penalità, una narrazione sportiva che oltre a significare superiorità rispetto al comparto dei partecipanti, può prevedere giustamente un super premio per il suo autore. Così quando al Pala Alpitour di Torino, Novak Djokovic ha chiuso contro Casper Ruud una settimana senza macchia, in automatico sono scattati i quattromilionisettecentomila dollari di premio previsti dallo sponsor per il supervincitore, una cifretta che consentirà alla famiglia Djiokovic di non rimanere indietro con l’affitto. Ma, come dicono i buontemponi, i soldi non fanno la felicità e seppure aiutino a vivere meglio, nell’espressione gioiosa del serbo c’era più la felicità di padre e marito che non l’attaccamento al vil denaro.

E’ destino dei grandi macinare record su record ogni volta che muovono un dito. Tuttavia, mi risparmio i numeri bislacchi di tale passione, per guardare questo sesto titolo di Djokovoc nell’appuntamento di fine stagione, come a un simbolo di continuità fuori dal comune, quella che distingue i fuoriclasse da coloro che vivono di exploit e procedono per ricordi. Non solo, nella prestazione torinese ormai alle spalle c’è molto di più. C’è quell’ace finale da sinistra che trainava al seguito il riscatto da vicende dure da digerire, come il guazzabuglio australiano e quello americano, che l’hanno tenuto fuori dal circuito e messo alla gogna da poco benevoli addetti ai lavori. Roba che psicologicamente avrebbe abbacchiato un cavallo, altro che percorso netto! Vicende che oggi danno di lui un’immagine iconica di coerenza, ben diversa da quella descritta al tempo dei fatti, una figura fedele a un cliché e a una scelta, condivisibile o meno, dalla quale traspare comunque il carattere deciso del campione di razza. Quell’ace interno, il quarantottesimo della settimana, ha segnato dunque il termine di un’impresa che lascia per strada nulla più che un misero set contro un Medvedev da prendere comunque con le molle. Una prestazione che fa del serbo un tennista unico nella visione tattica del gioco, un’intelligenza sportiva tra le più grandi di tutti i tempi.

Roba rara, che si richiama a una forte capacità di «autogestione» quella che gli studiosi definiscono come il controllo dei comportamenti e delle emozioni. Qualcosa che Novak Djokovic ha condito da sempre con la giusta inventiva senza tuttavia perdere di vista il lato pratico della questione. Un mix che a Torino, come in altre mille occasioni, ha mostrato il suo lato vincente fornendo del serbo l’immagine di un uomo consapevole che sa sempre dove mettere i piedi.