di Riccardo Zuliani
Salve, sono un appassionato di tennis e di scrittura e, coerentemente a questo assunto, la settimana scorsa sono stato a vedere i quarti di finale del torneo di Montecarlo per trarne poi qualche spunto degno di essere riportato in forma scritta. Ho visto Federer e, un poco faziosamente lo ammetto, sono rimasto abbacinato dalla sua grazia. Ok, è un cliché, ma è un inizio. Ho scattato questa foto e scritto il raccontino in allegato. Non so se a voi la cosa possa tangere in qualche modo, probabilmente sarà la millesima dissertazione sulla millesima bella foto di un dritto dello svizzero. Però, dato che ho dato forma ad alcune emozioni comuni, ho pensato di inviarvela. Tutto qui. Perdonate l'ingenuità (forse) dovuta alla mia tenera età.
Consapevole del fatto che il primo raccontino su Federer potrebbe verosimilmente farvi storcere il naso se non addirittura costringere il braccio ad alzarsi per coprire una bocca sbadigliante, allego pure un altro pezzo più generico, meno federeriano, più attinente, più dialogico.
Distinti saluti
Roger Federer deve parlare
Se ci si fosse fermati alle apparenze, quell’esibizione sarebbe risultata assolutamente e inequivocabilmente brutta. Il fatto è che le apparenze sono tutto per qualcuno. Per qualcun altro invece sono molto di più. Sono la sostanza di un evento. E questo qualcun altro era colui che aveva presenziato al match di Roger Federer. A dire il vero, erano in tanti ad assistere, e nessuno di questi si era fermato alle apparenze. Ovviamente. Il concetto, per intenderci, è che l’incontro era stato davvero orribile, una di quelle cose per cui non si sa bene perché nel tennis non possano andarsene a casa in due, perché debba per forza esserci un vincitore, perché in sostanza si siano sborsati tutti quei quattrini per assistere a stecche, palle scentrate, addirittura mancate, praticamente un errore gratuito dietro l’altro, un disastro colossale, oggettivamente non una partita, l’olocausto del colpo vincente.
Però c’era in campo Federer.
Il che non è cosa da poco, considerando che c’era in campo il “dio del tennis”. È bene ricordare che la religione è stata pensata in modo tale per cui anche quando non si riceva apparentemente nulla di buono dal proprio dio, in questo dio si continui a credere, e forse ancor più di prima. Perché ci sta mettendo alla prova. Ecco. Spesso le persone che vanno a vedere Federer (perché vanno a vedere Federer), non si rendono conto che quella che, secondo loro, dovrebbe essere una prova dello svizzero, è invece una prova tutta loro, di cui Federer è, per così dire, giudice, spettatore.
In più sensi, tra l’altro. Nel primo senso per quanto si è or ora fatto capire, perché la gente va a vedere Federer, ma spesso Federer è così diverso dal Federer che ci si aspettava, che non si è visto realmente Federer, se non a tratti, e tutto il resto va dimenticato, e va dimenticato nel tempo in cui un ballboy lancia al giocatore la pallina che sarà protagonista del punto successivo. Quei tratti in cui Federer è realmente Federer, quelli sono gli unici attimi che si intagliano in modo radicale nelle anime degli spettatori, piccole fibre che andranno a costituire il vero tessuto contemplativo delle persone. Nessuno si accorge degli errori di Federer, il tempo è fermo ogni volta che lui non fa ciò che un dio deve fare, ma quando riprende ad elargire la sua grazia ed i suoi doni, allora viene adorato in maniera totale, crescente, commovente. L’atmosfera del santuario fa si che ogni segno divino sia il grande segno, e tutto il resto semplice incapacità umana di capire e vedere. Di vedere oltre.
L’altro senso per cui la gente che va a vedere Federer per vedere Federer non vedrà Federer, e non lo giudicherà, è il fatto che in campo attraverso di lui si mostra il gioco del tennis nella sua scarnificata purificata e nuda essenza, senza che interprete alcuno si faccia carico della sua creazione. Federer quando incarna il tennis incarna il tennis, si dimentica di sé stesso, di tutto ciò che è stato e sarà, di tutti i suoi affetti, di tutto ciò che lo ha portato a trovarsi lì, esce da sé stesso, e si siede tra il pubblico, ad ammirarsi, invero anche lui. Nel momento in cui il tennis entra in campo Federer esce, la sua biografia se ne va, e rimane solo lo spettacolo di un movimento perfetto e disinteressato, che colpisce non per fare il punto- il disinteresse è totale verso l’ottenimento del risultato-, e che il punto lo farà egualmente, perché non si tratterà più di sopraffare un avversario, ma di condurlo con sé, di prenderlo per mano e renderlo partecipe di quel grande movimento a cui si è data vita, lì, in quel campo, in quel momento.
L’avversario di Federer collaborerà con Federer perché si realizzi il grande spettacolo, e il tennis prenda il posto sul palco, sotto la ribalta, per un qualche breve istante che sarà appena precedente all’istante successivo, e collegato con esso, senza che gli errori e ciò che di umano rientrerà in campo a fare da intermezzo tra i due istanti potranno rendere meno omogeneo e coerente l’arabesco che sta venendo a vita. È l’ultimo istante di bellezza, in qualsiasi momento avverrà, con un qualsiasi numero di momenti perfetti ad esso precedenti, renderà concluso il tessuto, ed armonioso, e grande. Le persone che hanno assistito, avvertono con lucifera profondità ciò che era mancato loro sino a quel momento, ossia quel momento stesso. Se gli arbitri, se gli avversari, se il pubblico non dovessero essere vincolati alle proprie leggi naturali ( quelle per cui esiste una cosa chiamata “punto”; e per cui ad un ”punto” deve seguire necessariamente un altro “punto” ; che esiste una forma di apprezzamento-ringraziamento- di tale “punto” che avviene mediante gestualità quali l’applauso) il balzo di Federer e della pallina che lo segue- e non il contrario- potrebbero continuare ininterrottamente, ascendere al cielo, levitare sopra le teste degli spettatori anche spazialmente, oltre che sostanzialmente, ed irradiare grazia dall’alto, come il sole.
Come il sole. Il fatto che comunque ci sia un pubblico e un edificio di leggi che tentino di ostacolarlo o , per lo meno, di inquadrarlo , non fa altro che accentuarne l’immensa raffinatezza stilistica: come il poeta, che solo quando è forzato dal metro riesce a spiccare balzi estetici di così rara levatura, così l’elvetico si fa carico di tutte le pressioni provenienti dall’esterno, dagli avversari, dal mondo, per farne un tessuto intricatissimo entro le cui smagliature potersi inserire e ,poi, venirne fuori, rituffarcisi dentro con scomparse intermittenti e poi, ecco, di nuovo sgusciare fuori da luoghi inaspettati, con movimenti vertiginosi. E non è un caso se quando puoi assistere alle sue apparizioni, le traiettorie e i movimenti della pallina non hanno alcun rilievo, dal momento che tutto ciò che ti basta è seguire le vibrazioni sinuose del suo corpo, la cui causa e conseguenza dirette non sono altro che i tragitti della sfera. Con Federer si può ritagliare un’inquadratura che copra l’avversario e il campo e tutto il resto, tranne che lui, e ti racconterà ugualmente, senza tralasciare nulla- anzi, mostrando qualcosa in più rispetto a quanto la visione di un campo dall’alto potrebbe rivelarti-, la storia di quella partita, la storia del tennis.
E, soddisfatti, tutti, si potrà tornare alle proprie case, alle proprie vite, come se nulla fosse stato, come se tutto fosse stato, dimentichi di essere stati giudicati dal dio del tennis, inconsapevoli della sua bontà che tutti accetta e tutti perdona e tutti lascia passare, ignari di aver superato, tutti, una grande prova, sicuri che dietro alla vita, oltre la vita, se non altro, c’è il grande tennis, e c’è Roger Federer.
E, pur pensando sia tutto lì, è tutto qui. Tra poche righe redatte da chi a quell’evento non presenziò. Del resto, Federer quella partita l’aveva persa.