Di Federico Mariani – foto Getty Images
E alla fine arrivò il sole. Per qualche minuto la fitta muraglia di nuvole che ha governato una Parigi mai così bizzosa lascia un pertugio per illuminare Novak Djokovic e vederlo ricevere dalle mani di Adriano Panatta la Coppa dei Moschettieri, la prima dopo tanti fallimenti a Bois de Boulogne quasi privi di spiegazione logica. La rincorsa del più forte, stoppatasi troppe volte a una manciata di passi dal traguardo, trova finalmente gloria con un successo artigliato grazie a volontà e determinazione straordinarie che permette al numero uno del mondo di guadagnare un altro determinante gradino nella scala dell’Olimpo.
Con la vittoria del Roland Garros, agognata più che semplicemente inseguita, Nole iscrive il suo nome tra gli immortali, anzi di più tra le leggende del Gioco. Il serbo non solo diventa l’ottavo uomo a unirsi nell’elitario club di chi ha vinto tutte le prove dello Slam (Budge, Perry, Emerson, Laver, Agassi, Federer e Nadal gli altri), ma è soprattutto il terzo a vincere quattro Major consecutivi pur non griffati dallo stesso anno, ma per quello avrà i prossimi Wilmbledon e New York. Si tratta di un cosiddetto non-calendar year Grand Slam, riuscito due volte a Serena Williams, una a testa per Steffi Graf e Martina Navratilova e mai nel circuito maschile.
È emblematico ricordare che tra i magnifici otto capaci di accaparrarsi tutte le prove dello Slam, tre sono figli della stessa generazione. Una prova in più, se ce ne fosse ulteriore bisogno, dell’età dell’oro che il tennis maschile ha potuto vivere grazie a campioni straordinari. Ecco, Federer & Nadal, si torna a parlare colpevolmente sempre di loro. Due presenza così scomode e spettrali per Djokovic, ma nel rovescio della medaglia anche tremendamente utili. Talmente vivi nel cuore della gente da far diventare rumorose persino le assenze. Talmente forti e diversi da ombreggiare un campione che i numeri dicono essere loro pari, fino a imbastire addirittura un processo di delegittimazione che sa di ingiustizia. Eppure con queste premesse dettate da un fuorviante immaginario collettivo, suona come un paradosso che la storia potrebbe ricordare Djokovic come il più vincente dell’era di Federer e Nadal.
Il rovescio di Andy Murray che bacia il nastro senza superare la rete consegna a Nole lo Slam parigino – il dodicesimo della serie – che gli vale il sorpasso a Borg e Lavar e il contestuale aggancio di Roy Emerson. Un trionfo, mai così dolce, che gli permette di inquadrare nel mirino Sampras e Nadal fermi a quota quattordici e che lo porta a meno cinque dal primatista Federer. Il tutto impreziosito dai trent’anni ancora da compiere e, soprattutto, da un dominio – nel tennis e nei numeri – irreversibile per il prossimo futuro. Quando per un giocatore il duello con la storia è più elettrizzante di un avversario da fronteggiare, allora questo sconfina il recinto dei campioni per tuffarsi in quello delle leggende.
Le principali accuse mosse a Djokovic dai detrattori, forse più accecati dalla fisiologica caduta dei propri beniamini che da altro, riguardano sia la componente squisitamente tecnica sia quella emozionale. È ormai universalmente riconosciuto che il ragazzo di Belgrado non diverte né emoziona mentre maneggia una racchetta in mano e alza trofei sempre più pesanti. Fatto salvo che trattando di emozione si parla del più soggettivo tra i sentimenti, è opportuno ricordare che non si può scorgere perfezione soltanto in una volée stoppata di Federer e non si può saltare sul divano solo dopo un gancio mancino di Nadal tirato da pochi passi dal giudice di linea. C’è perfezione anche in un rovescio di Djokovic che ricalca a mezz’aria la linea per poi atterrarci sopra. C’è emozione anche nell’ammirare un giocatore che, settimana dopo settimana, rende banale la cosa più difficile che esiste nello sport di ogni livello: vincere. Djokovic è la perfetta sintesi di tecnica, tattica, fisico e mente e in ognuna di queste quattro sacre componenti del Gioco detiene la leadership. È un mostro figlio della modernità che incarna rasentando la perfezione il tennis del suo tempo, un tennis se vogliamo più noioso del passato ma senza dubbio più complesso. Il quadro che ne risulta è un dominio totale del circuito, forse inedito per vigore e completezza.
Djokovic è il primo della classe. Non è il più bello e probabilmente neanche il più simpatico, ma è necessario saper divertire per diventare leggenda?