Foto Getty Images – di Federico Mariani
È una settimana pesante e sanguinosa quella che il mondo si è appena messo alle spalle. Una settimana che sembra anacronistica, ma che purtroppo non lo è per nulla: dall’altra parte dell’Atlantico si uccide ancora per il colore della pelle, di qua non siamo messi di certo meglio tra l’ennesimo vigliacco attentato all’umanità e un presunto colpo di stato in Turchia. Insomma, cosa di oltre mezzo secolo fa che tornano attuali oggi. In un contesto del genere tutto il resto non può che essere relegato a contorno sbiadito, materia marginale anche se – come sempre – a suo modo necessaria.
Il clou della settimana tennistica è condensato nella tre-giorni di Coppa Davis e, con una veduta un filo provinciale, nella sfida persa a Pesaro contro l’Argentina. Il nostro weekend ruoto attorno a due figure: Fabio Fognini e Federico Delbonis. Il primo era la nostra unica speranza, le spalle sulle quali addossare fortune e insulti, il talento da cui dipendeva l’esito della sfida. Il secondo, invece, è chi questa sfida l’ha decisa davvero. Fognini-Delbonis è banalmente la chiave del successo dell’albiceleste non solo perché ha fissato lo score sul definitivo 3-1, ma perché è anche stato l’unico match capace di ribaltare il pronostico della vigilia. La tanto (troppo?) decantata magia della Coppa Davis ha saputo trasformare un perdente in un perfetto condottiero. Ì
LA RIVALSA SOCIALE DI DELBO. È stata la rivincita del ragazzo di Azul non tanto per la finale di Amburgo 2013 vinta da Fabio in rimonta, neanche per i quarti di Rio 2015 vinti dall’azzurro in un selvaggio tie-break del terzo set, ma nemmeno per la partita di qualche giorno fa a Wimbledon quando Fogna infilò sei giochi consecutivi dallo 0-3 del quinto set. È stata una ritorsione umana, morale, sociale. Fognini è spavaldo, è bello, è talentuoso, ha – volenti o nolenti – personalità. Delbonis è timido, rigido, costruito, insicuro e soprattutto in molti frangenti ha dimostrato di essere un meraviglioso perdente. È un umano, uno a cui trema il braccio quando sta per vincere proprio come noi disperati giocatorini da circolo. È uno che abbandona la bagarre senza scintilla, uno che nelle fasi caldissime di un incontro se esiste anche solo un modo per perdere, lo trova. Spinto da Orsanic in panchina, da Del Potro & co. poco dietro e da quella stupenda sessantina di indomiti tifosi albicelesti, Delbo ha cambiato pelle, mutato per un giorno la sua natura e trovato la forza di prendere per mano la Seleccion e portarla in semifinale. Ha vinto il primo set infilando un parziale di quattro giochi consecutivi, ha strappato al rush finale anche la seconda frazione e, dopo aver perso il terzo set con la pessima quanto inutile scelta di aizzare il pubblico nel momento meno indicato, ha chiuso il quarto set con un altro tremendo parziale di quattro giochi e altrettanti setpoint cancellati a Fabio. Delbonis non è il prototipo del giocatore che vogliamo vedere accendendo la tv: sensibilità, talento, tocco, fantasia sono tutte qualità che non gli appartengono, ma in lui possiamo identificarci tutti perché è vicino, perché gli riconosciamo paure nostre, perché è un perdente quasi sempre ma non questa volta.
IL PROCESSO. Dopo ogni sconfitta nazionale che si rispetti deve scattare il processo per spulciare le colpe e i capri espiatori della disfatta. E allora è colpa di Fognini che doveva vincere i suoi singolari! Mannò Fabio ha fatto fin troppo tra singolo, doppio e ancora singolo in poco più di ventiquattr’ore. È colpa di Barazzutti, di Seppi o di Lorenzi, della superficie e di Pesaro, di Bolelli infortunato, del caso. La verità spesso è nel mezzo e, più specificatamente in Davis, la scelta della superficie la azzecca solo chi vince. La questione si riduce a un banale quanto puntiamo su Fognini?, risposta: tanto, tantissimo. Ergo è giusto giocare sulla terra, che tuttavia è anche l’habitat prediletto dal battaglione argentino. Se è questo il ragionamento, allora è anche opportuno addebitare al ligure una buona dose di responsabilità nella disfatta, anche se risulta ingeneroso prendersela con chi tra sabato e domenica è stato tutt’altro che ingeneroso con uno spirito e una voglia che solo la maglia gli riesce ad accendere. Qualcuno in modo forse provocatorio ha parlato di erba: fatto salvo il discorso sull’attuabilità pratica non propriamente trascurabile vista la tradizione italica prettamente terraiola, giocare su erba equivale a valorizzare al massimo Andreas Seppi da una parte e disinnescare Delbonis e Monaco dall’altra, fin qui molto bene. Equivale, tuttavia, anche a decimare l’apporto di Fognini ed estromettere dai giochi Lorenzi. Potevamo correre un rischio del genere sapendo che le condizioni fisiche del kid di Caldaro sono tutt’altro che impeccabili e che, soprattutto, dall’altra parte c’era il signor Del Potro, non esattamente l’ultimo arrivato sui prati? Decisamente no.
Al termine di Fognini-Delbonis Barazza ha esordito al microfono del prode inviato di SuperTennis con un “non sono uno che crede alla fortuna…” per poi proseguire facendo riferimento alla pioggia di venerdì come un Mazzarri qualsiasi, a Bolelli infortunato, Seppi incerottato e via discorrendo. Un po’ come dire “essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta sfiga”, per citare De Filippo. Di attenuanti e sfortuna parlano i tifosi o al massimo i giornalisti (quelli meno bravi), non i capitani. Quote dei bookmakers alla mano, le quattro partite disputate erano tutte vicine – così come ovviamente l’intera sfida – e potevano essere vinte come perse. Ciò su cui è giusto recriminare è l’assurda mancanza di illuminazione nell’impianto del Baratoff pesarese. La luce avrebbe consentito a Fognini di archiviare la vittoria contro Monaco nella serata di venerdì ed evitargli dunque la mezza-maratona di sabato. Abbastanza clamoroso che un evento prestigioso e pesante come i quarti di finale di Coppa Davis presenti simili lacune.
La verità è che in questa competizione il primo singolarista è di vitale importanza ma non può vincere da solo, specie perché Fogna è sì un ottimo giocatore (forse anche di più in Davis) ma non è un cosiddetto top player e l’Italia non può permettersi di ruotare attorno a Fognini. Del resto, se neanche Federer è riuscito da solo a mettere le mani sull’Insalatiera un motivo ci sarà. Oltre alla sconfitta con gli argentini, ciò che preoccupa maggiormente è l’orizzonte futuro dove non si scorgono ricambi validi, ma questo è un discorso orami abusato al punto da diventare tedioso.
LA DAVIS DI CHI NON C’È. Negli altri quarti di finale, spicca la straordinaria rimonta della Croazia a Portland contro gli USA. Americani avanti 2-0 dopo la prima giornata con Cilic che si fa rimontare due set da Sock e Isner che poco dopo scherza Coric. Nel doppio sempre Cilic coadiuvato da Dodig battono i Bryan dimezzando lo svantaggio, e ieri la rimonta si completa grazie ancora a Cilic vincente contro Isner e soprattutto Coric che si impone nel quinto match contro Sock. È il weekend degli assenti e la Repubblica Ceca senza Berdych ospita a Trinec la Francia orfana di Gasquet, Monfils e Simon. No pronblem, ci pensano Pouille, Tsonga e soprattutto i numeri uno in doppio Herbert/Mahut per il 3-1 finale. Infine, la Gran Bretagna senza Murray ma con un grande Edmund sbanca Belgrado contro la Serbia delle terze linee.
KLIZAN MR.500, LA SVIZZERA HA ANCHE GOLUBIC. Settimana intensa anche a livello Atp/Wta con tanti tornei che in realtà dicono poco o nulla. Amburgo è ogni anno più lontano da ciò che fu nel recente passato: declassato a Masters 500, ha presentato nell’edizione 2016 un campo partecipanti a dir poco misero se soppesato allo spessore storico del torneo. Basti pensare che nessun top-20 era impegnato questa settimana e poco regge la scusa della Coppa Davis visto che soltanto Tsonga, Cilic, Bautista e Isner erano impegnati. In Germania trionfa Martin Klizan che si sveglia per tre giorni di fila col piede giusto e brutalizza chiunque si trovi dall’altra parte della rete, compreso Pablo Cuevas regolato in 59 minuti in finale. Dopo Rotterdam, altro titolo di categoria 500 per lo slovacco che da oggi ritrova casa tra i primi 30 del mondo.
A Newport – dove si è anche festeggiato l’ingresso di Marat Safin nella Hall of Fame – vince Ivone Karlovic. Settimo titolo al sedicesimo anno sul circuito e primo nel 2016 alla veneranda età di 37 anni. In finale il gigante croato supera in scioltezza Muller dopo tre ovvi tie-break, l’ultimo dei quali chiuso con un pirotecnico 14-12 e tanto di tre matchpoint cancellati. A Bastad derby iberico in finale, tra mancini, il che è quasi sempre sinonimo di compassione. Se poi uno dei due interpreti è Fernando Verdasco la carità scatta quasi automatica. Dopo aver giocato benissimo per tutto il torneo, Nando cede il passo al primo titolo Atp di Albert Ramos – un mancino come lui, ma più leggero, con meno talento, più scarso e più brutto – naufragando in un triste 6-3 6-4.
Buone nuove dalla prima edizione del Wta di Gstaad che incorona Viktorija Golubic, svizzera di Zurigo classe ’92 a cui qualche folle maestro ha insegnato il rovescio a una mano. Ormai una rarità tra gli uomini, praticamente una mosca bianca nella Wta. Quindi, aggiornando il contatore gli amici al di là delle Alpi hanno: Federer, Wawrinka, Hingis, Bencic, Bacsinszky e Golubic, non sarà un po’ troppo?! Beati loro.. Per una Vika al primo acuto sul circuito maggiore, c’è un’altra Vika o meglio LA Vika (Azarenka) che abbandonerà tutti per un po’ perché incinta. Già con Sharapova fuori dai giochi, la Wta viene azzoppata nuovamente dall’assenza di uno dei pezzi più pregiati e l’orizzonte si fa sempre più grigio. Ah a tal proposito da registrare – ma giusto a livello burocratico – l’inaspettato successo di Simoncina Halep a Bucarest, brava a vincere una finale quasi sempre in bilico contro Sevastova (6-0 6-0).
Anche per questa settimana è tutto. Oggi partono invece più o meno 64 tornei che animeranno la settimana. Si giocherà, infatti, a Washington, Gstaad, Kitzbuhel e Umago a livello maschile, Washington-bis, Stanford e Bastad per le donzelle. Ma, tranquilli, dei migliori non ci sarà neanche l’ombra.