Cosa avrà pensato il mitico Rod Laver durante la finale tra Nadal e Djokovic? Preparazione fisica, doti atletiche, coraggio, volonta…ma poi? DI FEDERICO FERRERO (da "L'Unità")

Rod Laver consegna il trofeo dell'Australian Open a Novak Djokovic

Di Federico Ferrero – Articolo apparso su "L'Unità" del 30 gennaio 2012

Assorto, lo sguardo dolorante al Rolex di quarzo che segnava 5 ore e 53 minuti – la finale dello Slam più lunga di tutti i tempi – mister Rod Laver, 73 anni segnati da un ictus, deve aver pensato a uno dei suoi tre Australian Open. Forse all’ultimo, quello del 1969, prima delle quattro tappe di un Grand Slam mai più ripetuto nel tennis maschile. Tre set per superare Andres Gimeno, raro spagnolo anallergico all’erba. Ma il nostro pianeta, quello abitato da Djokovic e Nadal, è un altro corpo celeste e Rod l’alieno non sembra riuscire a farsene una ragione, eccezion fatta per il suo erede Federer. Il tennis della finale 2012 di Melbourne Park andrà raccolto e conservato come un distillato senza precedenti di preparazione fisica, doti atletiche, coraggio, volontà e determinazione da parte dei due migliori atleti che mai abbiano calcato un campo. Le gobbe di fibra rossa alla Superman di Nadal, forgiate nell’adolescenza da un trainer innovativo di Maiorca, Joan Forcades, contro i nervi stirati all’inverosimile nei mesi di lavoro invernale di Nole. Fatti cozzare l’uno contro l’altro, come meteoriti in una prova di forza per la sopravvivenza, han fatto fuochi e fiamme dall’ora dell’aperitivo a quella dei sogni, morendo e risorgendo a momenti alterni. Rafa, che di partite contro il numero uno del mondo ne ha perse sette consecutive, tre di fila in uno Slam con questa, ha lasciato tutto sul centrale aussie, anche quello che non aveva. Sotto due set a uno, 4-3 e 0-40 ha giocato i cinque punti migliori del match. Passato indenne attraverso un tie-break che lo vedeva sotto 3-5, ha rifiutato la resa. E ce l’aveva fatta, ormai. Un break di vantaggio nel quinto, 4 giochi a 2, 30-15 e un comodo rovescio da appoggiare di là, a Djokovic sulle ginocchia. Sbagliata quella palla, la memoria emotiva ha fatto clic. «Contro questo qui non vinco mai, questo qui non muore mai», ha pensato Rafa. E Novak ha intercettato, in una mezza smorfia dello spagnolo, quel segnale fioco ma chiarissimo di umana incertezza che attanaglia Nadalito proprio mai, se non contro l’unico essere al mondo in grado affrontarlo buttandola sul fisico. A tutto aveva pensato, il clan Nadal, non che potesse arrivare un Nadal capace di quello zero virgola in più: più veloce, più forte, più resistente. Più tenace.

Non è stata una bella partita di tennis. Piuttosto, epica sportiva: come si potrebbe chiedere ad Alex Schwazer di marciare composto dopo 50 chilometri olimpici? Se metti due fenomeni, dalle qualità fisiche tanto straripanti da meritare un circuito a parte, nelle condizioni di giocare su un campo lento, con palle lente, in serata – invariabile omaggio ai network televisivi mondiali per compensare il fuso orario – la reazione è certa. Sarà lotta con spargimento di sangue. Una corsa a esaurimento entusiasmante, estenuante tanto da scommettere su una lunghissima pausa dei due prima della ripresa dell’attività annuale, nella quale tutto è reso estremo. A parte il tennis, inteso come qualità e varietà nel toccare la palla: qualcosa va ineluttabilmente sacrificato, in questo tennis-triathlon destinato ai supereroi, e la vittima è la qualità tecnica. Gli Australian Open ci restituiscono un re del ranking che mette le mani sul quinto Slam, il quarto degli ultimi cinque, e che sposta più in là il limite di resistenza umana sul campo da tennis: in due giorni ha sfiancato, colpito e affondato due killer come Murray e Nadal per dieci ore e 43 minuti di ritmi forsennati. Una cosa simile, davvero, non s’era mai vista. Il povero Rafa, che proverà in queste ore un’impotenza simile a quella cui ha costretto Federer in nove anni di sfide quasi sempre sbilanciate, somiglia sempre più a un guerriero Shaolin che tenta di abbattere la propria ombra. Più ci prova, più perde il senno. «Ogni anno diventa più dura», ha sussurrato. Detto a gennaio suona come un colpo da knock-out: lo stesso che, nel corso del quinto set, aveva rifilato al nemico al termine di uno scambio assurdo, indicibile, esaurito col serbo crocifisso al cemento. Solo che Novak, maledizione, si è rialzato.

Mister Rod Laver è  rimasto su fino alle due del mattino per consegnare la terza Norman Brookes Challenge Cup nelle mani piagate di Novak Djokovic. Rompendo un cerimoniale centenario, gli addetti hanno dovuto far accomodare i due gladiatori su una seggiola: non si reggevano in piedi, rischiavano di ruzzolare giù dal palco mentre il presidente di Tennis Australia gongolava al microfono per la finale dei record. Anche nel pubblico: 686.000 spettatori nelle due settimane, primato assoluto che merita l’investimento di 160 milioni di canguro-dollari per rendere l’impianto, già sfavillante, ancor più tecnologico e accogliente. Nel mentre, l’anziano Red Rocket si domandava una volta di più, tra il suo e quello dei giorni nostri, quale fosse mai il tennis vero.