Nata sovietica, oggi Varvara Lepchenko è una cittadina americana. E’ andata a Mosca per la prima volta dopo 12 anni. Temeva insulti, ha dispensato autografi. Si, la Guerra Fredda è finita.
Varvara Lepchenko risiede ad Allentown, in Pennsylvania
Di Riccardo Bisti – 18 ottobre 2012
Sono passati 23 anni da quando migliaia di ragazzi presero a picconate il Muro di Berlino e una realtà che era collassata su se stessa, ispirando la mitica ballata 'Wind of Change' degli Scorpions. Da allora sono cambiate tante cose, ma andare a Mosca da cittadino americano dopo essere stato…sovietico, non deve essere proprio una passeggiata. Bruce Springsteen l’avrebbe definito un viaggio nella Tana dei Leoni. Il 21 maggio 1986, Tashkent era una città dell’Unione Sovietica. Mikhail Gorbaciov stava per varare la Perestrojka, ma le due superpotenze erano ancora divise. Al cinema era appena uscito Rocky IV, film-simbolo di un odio che – dopo aver raggiunto il picco – poteva solo scemare “Se io posso cambiare, e voi potete cambiare…tutto il mondo può cambiare!”. Eppure nessuno avrebbe immaginato quello che sarebbe successo tre anni dopo. Quel giorno, la signora Larisa mise al mondo Varvara Lepchenko, piccola sovietica incisa nella falce e nel martello della bandiera rossa. 26 anni dopo, Varvara è la ventunesima più brava di tutte a giocare a tennis. E’ la seconda migliore americana dopo Serena Williams. Il passaporto è a stelle e strisce. Niente più Ivan Drago, solo Rocky Balboa. In mezzo, tante cose da raccontare. Partiamo da oggi, dall’Olympic Stadium di Mosca, bestione costruito per le Olimpiadi del 1980. C’è il torneo WTA, e la Lepchenko ha perso contro Tsvetana Pironkova. Ma il risultato non conta. C’è una storia umana, fatta di paura e curiosità. Da una parte c’era il desiderio di tornare in Russia dopo tanti anni, dall’altra il timore di essere accolta come una traditrice. “Anni fa mi è capitato di vedere una partita della Kournikova in questo torneo – racconta la Lepchenko – dagli spalti le urlavano ‘tornatene in America!’ in russo”. La Kournikova, a parte i dollaroni intascati per la sua bellezza, è stata vittima di forti critiche per le sue scelte capitaliste e filo-americane. Per questo, la Lepchenko è rimasta stupita quando la gente di Mosca la rincorreva, ma non per insultarla. Volevano un autografo. Essì, la Guerra Fredda è proprio finita.
Varvara non stava bene. Aveva qualche linea di febbre, ma il desiderio di tornare nel suo ex paese era troppo grande. Era la prima volta in Russia da quando, nel 2001, era fuggita dall’Uzbekistan. “Dopo 12 anni ho sentito il desiderio di tornare nella ex Unione Sovietica. Purtroppo avevo problemi a respirare, a dormire, e il risultato lo dimostra”. La Lepchenko è nata in Uzbekistan ma è figlia di ucraini. Ha passato gran parte della sua vita mischiando identità e nazionalità, come quando lo status di rifugiata negli Stati Uniti le ha impedito di avere contatti con la madre patria per quattro anni. Nonostante sia cresciuta nei campi pubblici di Tashkent, lontana dalle Accademie pluriaccessoriate, è diventata un’ottima giocatrice e quest’anno ha addirittura giocato le Olimpiadi per il suo nuovo paese. Può mettersi la mano sul cuore durante l’inno americano dal 24 settembre 2011, quando le hanno dato la cittadinanza dopo 10 anni di residenza. “E pensare che non me lo disse nessuno. L’ho scoperto su Twitter, leggendo i tweet della USTA. Il mio pensiero è stato semplicemente ‘Wow!’”. Varvara ha trascorso la sua infanzia a Tashkent, ma faceva parte di una comunità ucraina, spedita in Uzbekistan dalle autorità sovietiche. “Per questo non posso considerarmi un’uzbeka, non la sono mai stata – racconta – non conosco la loro lingua, non osservo le loro usanze, non ho mai festeggiato le loro vacanze. Il mio sangue è ucraino, ma non posso nemmeno definirmi ucraina, perché non ci ho mai vissuto. Ci sono stata soltanto una volta”.
Gli uzbeki non l’hanno mai accettata. E allora, dopo l'ennesima umiliazione, ha scelto gli Stati Uniti. La decisione risale al 2001, quando è andata a Miami per un torneo giovanile. Non trovava il suo nome nell’entry list: “Mi chiesi che stava succedendo, i funzionari americani mi spiegarono che la federtennis uzbeka mi aveva cancellato dal torneo. Non volevano che giocassi”. Sono dunque iniziate le pratiche per la cittadinanza, lunghe e snerbanti nonostante l’appoggio dei politici della Pennsylvania. “Ad Allentown, dove risiedo, c’è un senso di accettazione che non ho mai trovato altrove. Mi hanno adottata, quindi sono orgogliosa e onorata di essere americana”. Nel circuito mondiale queste cose si sentono di meno, così non è strano sapere che ha amicizie uzbeke, americane e russe. “Ma certo, durante i tornei in Asia ho trascorso molto tempo con Nadia Petrova, mentre in Europa stavo sempre con Oudin e McHale”. Inoltre ha ottimi rapporti con Akgul Amanmuradova (n. 1 uzbeka) e con l’amico d’infanzia Denis Istomin. “Di certo non ho problemi di questo tipo nelle mie amicizie”. Quest’anno ha compiuto il salto di qualità, mostrandosi competitiva su tutte le superfici. A Parigi l’abbiamo vista battere Francesca Schiavone, ma non ha ancora intascato un titolo WTA (mentre vanta 11 titoli ITF). “Devo ancora migliorare ma è bello sapere che posso essere più forte di quanto sia oggi. Non ho obiettivi particolari nè tornei preferiti. Quando scendo in campo, voglio vincere”. Vincere il torneo di Mosca, tuttavia, avrebbe un sapore particolare. Anche se la Guerra Fredda è finita da oltre 20 anni. Se ne riparlerà l’anno prossimo, febbre permettendo.
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