Tecnicamente simili, Djokovic e Murray trasformano ogni incrocio in un dramma di equilibrio. A Nole, rispetto al 2011, è rimasta la capacità di dare il meglio nel momento del pericolo.
C'è ancora qualcosa che distingue Andy Murray e Novak Djokovic

Di Federico Ferrero – 8 novembre 2012
(Articolo apparso su "L'Unità")


Cambiano superfici e continenti ma Andy-Novak rimane una sfida a saldi invariati: forti nella testa, mostruosi nel fisico, tecnicamente non identici ma equivalenti, ogni incrocio si risolve in un dramma di equilibrio. Che si è riprodotto pure nella Arena di Londra: una battaglia già vissuta quest’anno, con picchi di qualità e ferocia agonistica toccati agli Open dei canguri e durante gli Us Open. O più recentemente a Shanghai, con i cinque match point cancellati dal serbo. Djokovic e Murray sono gemelli diversi; questa volta, come in Cina, il campo ha detto Nole, benché il numero uno sia partito in colpevole ritardo – troppi rischi inutili, strane quantità di errori – e nonostante un recupero clamoroso dell’eroe di casa, dal 6-4 3-6 1-3 al 5-4 e due punti di distanza dal successo. Kid Andy ha tradito dopo aver colpito e rianimato il cuore dei londinesi: terminata la scorta di risorse, si è arreso.

È un duello che ha detto molto e deciso poco, questa settima tappa annuale della rivalità tra il Joker e lo scozzese; per un verso conferma che il terzo e il quarto elemento del girone, il colpitore robotico Berdych e Jo Tsonga, l’estroso Mario Brega del tennis la cui mano può essere ferro o piuma, sono confinati alle dipendenze dei primi due. Dall’altro, ribadisce un adagio classico in questo evento fascinoso e canonico nella sua anomalia, nel quale due vittorie e quattro set su cinque nel girone eliminatorio possono non bastare per qualificarsi. È la formula del Masters, che contraddice la legge fondamentale (vinci e continui, perdi e vai a casa) e paga il prezzo della rottura della Costituzione del tennis con l’offerta degli otto migliori in azione per tre partite, indipendentemente dall’esito. Tradotto in cronaca, a Djokovic questo successo non è, di per sé, sufficiente per assicurarsi il passaggio alle semifinali.

A voler scavare, emerge un dato indicativo: del Djokovic intoccabile del 2011 un tratto è rimasto identico, quella naturale propensione a reagire al pericolo con l’offerta del meglio di sé. Novak gioca ‘a tutta’ quando le cose volgono al peggio. Salva match point, come contro Federer a Flushing Meadows negli ultimi due anni, come è accaduto al Roland Garros contro il povero Tsonga, e così nella richiamata guerra a Shanghai contro Murray; delle diciotto partite risolte al set decisivo, nell’anno, ne ha vinte quindici. La storia di Murray, segnatamente la più recente, racconta di molte partite recuperate con set di svantaggio (Djokovic, al contrario, presenta un quasi incredibile 61 contro 1 quando ha vinto il primo set), narra di match point sprecati – almeno uno a torneo negli ultimi tre appuntamenti – e di una minor capacità, in definitiva, nel ruolo di finisseur. Se Murray ha conosciuto i suoi Everest con la medaglia d’oro in casa e il primo Slam, a far data dalla sconfitta per mano di Andy proprio nel torneo dei Giochi è Nole ad aver chiuso la partita per la supremazia nel ranking con la stagione sul cemento americano e l’Asia, arrivando sempre almeno in finale da agosto in poi. Il tutto al lordo di un anno nel quale ha mantenuto il riserbo sulle condizioni di salute del padre che, si vocifera, avrebbero giocato un ruolo non di poco conto nella mancata ripetizione del dominio passato. La fame di Masters di Nole, con l’unica vittoria lontana nel tempo – era il 2008 – è forse l’insidia più seria alle legittime pretese di sir Roger, che i più ritengono ancora il numero uno del tennis. Se giocato, specificano, con un tetto sulla testa: ma grazie all’ingegneria, ormai, è possibile un po’ dappertutto. Anche a Wimbledon.