Gianluigi Quinzi è già a ridosso dei top 500 ATP
Di Federico Ferrero
(Tratto da L'Unità del 12 dicembre 2012)
Si abbrevia GQ, non si legge Gentlemen’s Quarterly ma Gianluigi Quinzi. Lo si spiega così: è la speranza incarnata di riportare il tennis italiano al vertice, dal giorno del 1979 in cui soldatino Barazzutti abbandonò il club dei primi dieci per essere mai più rimpiazzato. Studi mirati lo dimostrano: per diventare grandi nello sport è utile nascere sotto una campana di vetro. O hai in famiglia un professionista oppure devi poter respirare l’aria della tua disciplina, sempre, fin dalla culla. Successe a Panatta, che Pietrangeli conosceva come Ascenzietto, il figlio del custode del Tc Parioli. Non una, ma entrambe le coincidenze propizie capitano – vivaddio! – in casa Quinzi, una famiglia di Porto San Giorgio in cui mamma Carlotta ha un passato come nazionale di pallamano e sci e il papà, Luca, è presidente del circolo marchigiano che ospita un torneo-incubatrice per i migliori giovani del pianeta. Per quei campi sono passati, ancora con l’apparecchio ai denti, big del tennis come Ivanisevic, Gaudenzi, Errani, Schiavone. E un’infornata di talenti azzurri mai sbocciati, quelli che hanno allungato a dismisura la carestia tricolore. Ecco perché la famiglia Quinzi ha fatto i conti con la cronica incapacità italiana di produrre giocatori e non si è seduta sul successo del ragazzo nel torneo organizzato in casa. Anzi, in quel 2008 Gianluigi si era già assentato da casa: non aveva ancora dieci anni quando vinse il Little Mo, una sorta di expo dei futuri campioni in Florida intitolato alla disgraziata fuoriclasse ragazzina Connolly. Da quelle parti detta legge il guru Bollettieri: Nick mandò i suoi emissari, gli offrì la frequenza gratuita e se lo portò in accademia a Bradenton.
Passione, dedizione e “testa”, che come sostiene il babbo puoi aiutare con l’esperienza ma, in fondo, o ce l’hai – e puoi sognare di diventare qualcuno – o sei destinato a restare uno qualunque. GQ cresce così, sano e lontano. Poi decide che la scuola di Bollettieri non è più la cosa giusta per lui, torna in Europa, si appoggia al miglior coltivatore di puledri italiano, Riccardo Piatti. Ci ripensa ancora e sceglie Eduardo Infantino, coach latino che lo impacchetta e spedisce nella sua Argentina per costruirlo col caro vecchio sistema dell’emulazione, ricalcando la vita degli affamati di Tandil. Come Del Potro, per nominarne uno. Tanto trottare per il mondo ha un effetto straniante: a sentir parlare GQ in “ispaliano” – stesso idioma di Sarita Errani, Fognini e Pennetta, del resto – sembra di averlo importato da Mar del Plata. Ma che importa: rileva solo la straordinaria precocità nel successo, e Quinzi è in anticipo su tutto. È il più giovane a comparire nelle classifiche della federazione mondiale, a otto anni vince coi dodicenni, a dodici coi sedicenni, oggi con i maggiorenni. È un mastino: mancino, rovescio a due mani come arma più insidiosa, gioca con la stessa tigna del suo idolo Rafa Nadal eppure non gli somiglia granché, sottile com’è (ma si sta… gonfiando, e lo si scrive senza malizia). Non gioca alla grande, gioca da grande: scarsi numeri da genio della racchetta ma una maturità, una continuità quasi sconcertanti, se ammirate in un adolescente.
In primavera la Quinzi-mania si è scatenata a Milano, durante il trofeo Bonfiglio: un appuntamento storico, tra i più frequentati dopo gli Slam juniores. È un torneo cui è toccato benedire la carriera di Panatta, Lendl, Gaby Sabatini. E ora quella di GQ, che lo vince ad appena sedici anni; per toccare, poche settimane, dopo le semifinali sul sacro suolo di Wimbledon. A costringerlo alla resa quel corazziere di Luke Saville, un armadio aussie di un metro e 90 già adulto e vaccinato per il grande tennis. Perché Quinzi, insomma? Perché prima o poi dovrà accadere anche a noi, di riaccendere la luce su un campione. Così recita la legge dei grandi numeri, quella che dagli anni Settanta ha sparpagliato scintille di fuoriclasse in Lettonia, a Cipro, in Svizzera, in Scozia e in Serbia, in Cile e in Olanda, evitando con cura il patrio confine. E, di più, perché non è l’italiano dal bel colpo che strappa applausi e non vince mai: quel tipo di giocatore, il tennista di Moretti cui va tutto storto, non ha il minimo riscontro in GQ. Quinzi non legge articoli sul suo conto, non va su Internet a “googlare” il suo nome, lo trova tempo perso dietro anonimi sapientoni da divano. Lo facesse, troverebbe anche spunti golosi: chiuderà al terzo posto nel ranking Itf, e migliore al mondo tra i nati nel ‘95 e ‘96. Ha già 49 punti Atp, dove compare al numero 558. Diciamolo sottovoce, anzi, pensiamolo: forse sì, questa è la volta buona.