Grandi progetti per il baby fenomeno del tennis britannico, appena entrata tra le top 50. Le esperienze del 2012 e le speranze per il futuro, tra una lettura e un po’ di cucina.
Nella sua permanenza a Hobart, Laura Robson ha fatto visita ai canguri
Di Gianluca Roveda – 9 gennaio 2013
A dispetto dei 19 anni (li compirà il 21 gennaio), Laura Robson è una ragazza matura. Dice cose interessanti e sa affrontare con cognizione di causa diversi argomenti. L’anno scorso ha messo fine alla carriera di Kim Clijsters allo Us Open, poi si è confermata battendo Na Li prima di cedere a Samantha Stosur. Un mese prima aveva vinto l’argento olimpico in doppio misto (insieme a Andy Murray) e a settembre è diventata la prima britannica a raggiungere una finale WTA dopo 22 anni (a Guangzhou, dove si è arresa alla Hsieh). La Watson l’ha “bruciata” vincendo a Osaka, ma il tempo è dalla sua parte. Ed è appena entrata tra le prime 50. La Gran Bretagna non aveva due top 50 dal 1987: erano i tempi di Jo Durie e Sara Gomer. Eppure Laura avrebbe potuto giocare i tornei junior per tutto il 2012. Ma li aveva abbandonati da tempo: in fondo aveva vinto Wimbledon Junior nel 2008, quando aveva 14 anni. Nelle foto-ricordo posava con Grigor Dimitrov, vincitore della prova maschile. Nel 2012 ha giocato contro la Schiavone, perdendo in tre set. “Ero molto delusa, ma sono ripartita bene – racconta – subito dopo Wimbledon sono andata a Palermo e ho raggiunto la mia prima semifinale WTA. E’ stato importante, anche perché la terra rossa è la mia peggior superficie”. La fiducia cresceva, tanto che alle Olimpiadi ha battuto la Safarova e avrebbe potuto togliere un set alla Sharapova. Si è consolata con l’argento in doppio misto. “Avreste dovuto vedere Murray prima della semifinale. Era molto carico, pensava che il misto fosse difficile. C’erano solo 16 coppie e tutte erano meglio piazzate di noi. Invece siamo andati in finale. Peccato, perché potevamo farcela. Ma non riuscivo a rispondere al servizio di Mirnyi, era troppo veloce”.
Murray aveva vinto l’oro in singolare, ma giocò al top anche il misto. Un mese dopo avrebbe vinto lo Us Open. “Quel giorno mi trovavo a casa, a due passi da Southfields. Dopo i primi due set, mia madre disse che sarebbe andata a dormire perché ormai era fatta. L’ho zittita e avevo ragione, ma alla fine era molto felice per Andy”. Un giorno, la Robson vorrebbe calcare lo stesso campo per la finale femminile. A fine 2011 era numero 125 WTA, adesso è numero 50. L’inerzia è dalla parte giusta. Anche perché è la seconda più giovane tra le top 100. La tedesca Annika Beck la “beffa” di tre settimane. Ad oggi, il momento clou della sua carriera è la vittoria con la Clijsters. “Sapevo che avrei potuto vincere. Non stava giocando il suo miglior tennis, ero fiduciosa. Mi era già capitato di affrontare giocatrici forti. Magari lottavo nel primo set, lo perdevo e crollavo nel secondo. Non volevo che succedesse di nuovo. Ed è andata così”. Ancora più importante la vittoria contro Na Li. “Per la prima volta ho tenuto un certo livello di gioco per due ore e un quarto”. Qualche settimana dopo è arrivata la prima finale WTA, in cui ha sciupato il successo. Contro Su-wei Hsieh è salita 3-0 al terzo, ma si è fatta riprendere. “In quel momento mi sono sentita svuotata. Faceva caldo, mi sono accasciata sulla sedia e mi sono attaccata alle bevande energetiche. Lei se ne è accorta e si è fatta forza”.
Ma il 2012, con il suo mix di gioie e delusioni, è acqua passata. E’ tempo di tuffarsi nell’anno nuovo. Le vacanze sono durate appena tre giorni, poi c'è stata la dura preparazione invernale, svolta a Boca Raton sotto la guida di coach Zeljko Krajan e il preparatore atletico Jez Green. Hanno lavorato su forza, velocità e resistenza. “Infatti oggi mi sento più forte e più veloce”. Il talento non le manca: dotata di un ottimo timing, fonda il suo tennis sul dritto e sul servizio. Deve migliorare nei movimenti e nella varietà di gioco, oltre a trovare continuità. Ma quella si acquisisce con l’esperienza. “Sto lavorando ogni giorno sulla mobilità. Ho lo spirito giusto in questo senso”. Gli stimoli sono ancora più grandi da quando c’è Heather Watson, connazionale e compagna di Fed Cup. Le due sono amiche, ma è inevitabile che trapeli un pizzico di rivalità. “Ma si, ci sono state fatte un mucchio di domande sull’argomento – sospira Laura – ma siamo semplicemente amiche. Ho giocato il mio primo evento a squadre quando aveva 10 anni e lei 12. Siamo competitive, ma vogliamo il meglio per l’altra. Heather può entrare tra le prime 10”. Zeljko Krajan è famoso per la sua durezza. Ma lei se la ride: “Su consiglio di mio padre voliamo ancora in classe economica. Io mi diverto perché in aereo mi capita di dormire. Ma per lui non è così e fa più fatica”. Il coach croato ha spinto Dinara Safina al numero 1 del mondo, ma la Robson ricorda più che altro la sua passione adolescenziale per il fratello Marat. Ma la maturazione è viva: Laura ama leggere. “In questo momento sto divorando The Secret Race di Tyler Hamilton. E’ molto interessante leggere del doping di Lance Armstrong”. Meno sorprendentemente, ama la cucina e in particolare i dolci. “L’anno scorso ho vinto un concorso. C’erano nove torte, ho vinto con una torta di mousse al cioccolato e cocco con un po’ di rum, preparata su una base di biscotti”. Se non ci fosse stato il tennis avrebbe potuto fare lo chef. “Più facilmente avrei aperto una pasticceria”. Ma adesso ha fame di vittorie. E pazienza se ha perso lo scontro generazionale contro Sloane Stephens ad Hobart. “Voglio vincere un sacco di partite. Non vedo l’ora”. Messaggio recepito.
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