Tanto è passato dalla prima vittoria di Federer ai Championships. Il tennis è cambiato, ci sono nuovi personaggi, ma l’emozione rimane sempre la stessa.
I finalisti dell'edizione 2003 di Wimbledon: Roger Federer e Mark Philippoussiss
Di Lorenzo Baletti – 23 giugno 2013
2003, prima domenica di luglio, Church Road. Dall’altra parte c'era Mark Philippoussis, sempre a rete sulla prima e sulla seconda di servizio. La prima testa di serie di quel torneo era un altro australiano, Lleyton Hewitt, campione in carica che avrebbe conosciuto la vergogna della sconfitta all’esordio. A seguire un certo Andre Agassi, che si sarebbe ritirato tre anni dopo tra le lacrime della Grande Mela. Roger Federer, uno svizzero di belle speranze occupava la quarta testa di serie, stretto tra Ferrero (n.3) e Roddick (n.5). Bei tempi per gli Stati Uniti, che ora fanno fatica a piazzare un tennista tra i primi 20 ATP. Andy Murray e Novak Djokovic avevano 16 anni, Wimbledon lo vedevano ancora in televisione. Già sognavano di calcare un giorno quei prati di un verde vivo, come la speranza di sollevare il trofeo più antico del mondo. Rafa Nadal era un ragazzino ancora 17enne, ma proprio quell’anno faceva il suo esordio a Wimbledon e si spingeva al terzo turno prima di perdere da Paradorn Srichaphan, tennista buddista che ha poi trovato l’equilibrio sposando Miss Universo.
La storia ci insegna che alla fine tutto è un ciclo, e allora vale la pena soffermarsi sul fatto che la prima apparizione a Wimbledon di Nadal coincide…con la prima vittoria di Federer! Sono passati 10 anni. Bjorkman, Roddick, Schalken, Henman, Grosjean, Popp, Philippoussis erano gli altri sette nei quarti di finale. La Murray Mount si chiamava ancora Henman’s Hill, e le speranze del Regno Unito erano tutte sulle spalle del talento semi-incompiuto di Oxford, uno che sul serve and volley qualcosa aveva da dire. La pioggia aveva ancora una certa autorità a Londra, grazie al potere di sospendere le partite anche sul più bello, prima che la tecnologia prendesse il sopravvento sulla tradizione, e il duopolio denaro-TV costruisse il tetto retrattile sul Centre Court. Le cose cambiano, eppure noi, spettatori della storia, amiamo di più l’antico rispetto al presente. Amiamo di più quel che resta, quel che non cambia. Il primo giorno di Wimbledon riusciamo ancora a sorprenderci di quanto siano verdi i campi di Church Road. Il candore dei vestiti bianchi cattura ancora le nostre emozioni. Ogni anno è come se fosse sempre il primo, le sensazioni si rinnovano, e le fragole con panna hanno ogni volta un sapore nuovo.
Sono passati dieci anni, tante cose sono cambiate. Vediamo Djokovic e Nadal, due mostri di atletismo e fisicità. Se stanno in campo meno di quattro ore pensano di fare un torto a qualcuno. La forza fisica sta prendendo il sopravvento sulla classe e sull’eleganza. Anche Roger è cambiato. Dopo un decennio, il codino da ragazzo ribelle si è pian piano accorciato fino a scomparire. I tratti del volto, un tempo marcati e decisi, si sono ingentiliti. Quella domenica di luglio del 2003 anche Federer andava sempre a rete. Poi sempre più a fondo campo, cacciato indietro dalle scorribande difensive di Nadal&Co. Ma noi amiamo quello che resta, non quello che cambia. Certo, tutto cambia e tutto scorre, ma uno sfondo immutabile rimane sempre. Lo cogliamo nei gesti più semplici, lo avvertiamo nel suono della racchetta che colpisce la pallina, lo percepiamo nello sguardo e negli occhi di Roger Federer. L’eleganza non scompare mai, la classe non si dissolve. Tante cose sono cambiate. Ma dopo dieci anni Federer e Wimbledon conservano ancora quello sfondo immutabile. Quella emozione, ogni volta nuova, ogni volta come se fosse la prima.
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