IL CASO – Rafa torna sulle questioni sindacali dell’ATP. “Continuo a pensare che il calendario vada accorciato e che il cemento faccia male. Ma davanti a me ho trovato un muro inscalfibile”.
Rafael Nadal pensa che troppo cemento sia dannoso per i giocatori
Di Riccardo Bisti – 9 ottobre 2013
La Rivoluzione che non c'è. Nel marzo 2012, Rafael Nadal si è dimesso dal Player Council ATP, dove ricopriva il ruolo di vicepresidente. Si era stufato di lottare per ciò in cui credeva e ha abbandonato la “politica”. Il Consiglio dei Giocatori è composto da 12 elementi, tra cui 10 giocatori (Federer, Anderson, Nieminen, Simon, Haase, Stakhovsky, Bhupathi, Butorac, Cerretani e Sa. Ne fa parte anche Claudio Pistolesi, rappresentante dei coach). Il suo obiettivo è individuare le soluzioni per migliorare il circuito. Nei suoi anni in Consiglio, Nadal ha portato un mucchio di proposte. Voleva che il ranking ATP fosse su base biennale e non più annuale, in modo da tutelare gli infortunati. Tra i più accaniti oppositori c’era Roger Federer. “Diventerebbe tutto molto più noioso, e poi gli emergenti farebbero molta più fatica a salire” disse lo svizzero. Nadal, novello Pancho Villa, si è battuto per altre due cause: l'accorciamento del calendario e la riduzione dei tornei sul cemento. La prima questione non si è mai nemmeno avvicinata alla soluzione. Anzi, una proposta prevedeva lo spostamento a novembre-dicembre dei tornei sudamericani sul rosso, azzerando le settimane di off-season. Ancor più delicata la vicenda delle superfici: secondo Nadal si gioca troppo sul cemento, la superficie peggiore per il fisico. Eppure, la “cementificazione” avanza. Basti pensare al torneo di Acapulco, che dal 2014 si giocherà sul duro. Inoltre, l'allungamento della stagione su erba (tre settimane prima di Wimbledon anzichè due, a partire dal 2015) ridurrà ulteriormente i tornei sul rosso: Stoccarda ha già annunciato la conversione al "verde". Sembra uno scherzo, eppure i terraioli devono ringraziare la crisi organizzativa degli Stati Uniti. La morte di San Josè e il declassamento di Memphis hanno spianato la strada a Rio de Janeiro, dove il prossimo febbraio si giocherà un ATP 500 sul rosso. Guarda caso, Nadal ha già dato la sua adesione.
Nadal non fa politica da un anno e mezzo, ma è tornato sull’argomento alla vigilia dell'esordio a Shanghai. “Sono fuori dalla politica e non voglio più essere coinvolto – ha detto – anche se hai opinioni forti e pensi che ci sia la possibilità di un cambiamento, esiste un muro che non si può abbattere”. L’allusione è alla burocrazia dell’ATP, ancor più inceppata dopo l’improvvisa morte del CEO Brad Drewett (cui è stato dedicato un campo al National Tennis Center di Pechino). Nonostante diverse riunioni, il nome del successore non è ancora stato individuato. Si pensava a una soluzione "interna": i candidati erano Mark Young e Laurent Delanney, ma le riunioni di Wimbledon non hanno risolto la questione. Delanney ha ritirato la candidatura, mentre Young resta in corsa. Tuttavia, l’ATP si è rivolta a una società di consulenza esterna (la Hedrick & Struggles) per farsi aiutare nel processo di reclutamento. Dovrebbero optare per un candidato esterno, come furono Etienne De Villiers e Adam Helfant. In questo momento, dunque, il consiglio di amministrazione è composto dai soli rappresentanti dei giocatori (David Edges, Justin Gimelstob e Giorgio Di Palermo) e da quelli dei tornei (Gavin Forbes, Mark Webster e Charles Smith). Una situazione che rende ancora più complicata la risoluzione delle tematiche proposte da Nadal. Anni fa, si pensava che lo spagnolo sostenesse certe posizioni per difendere i prori interessi. "Gioca meglio sulla terra e vuole più tornei sulla terra….".
Nel 2013, a suon di risultati, ha smentito la tesi. E’ rimasto imbattuto sul cemento fino a domenica scorsa, quando Djokovic l'ha battuto in finale a Pechino. Il suo bilancio stagionale sul duro parla di 27 vittorie e 1 sconfitta. “Dico queste cose perchè sono convinto che siano le migliori per le prossime generazioni. Certi cambiamenti consentirebbero di avere carriere più lunghe e una salute migliore. Probabilmente, a fine carriera, non sarò così fortunato”. Un segno di resa, ma anche di rabbia. Nadal è convinto di aver perso un mucchio di tempo per aver combattuto contro un establishment inscalfibile. A suo dire, Roger Federer si trova perfettamente a suo agio in questa situazione. Prima dell’Australian Open 2012, lo accusò di non prendere mai posizione. “Lascia che siano gli altri ad esporsi, così mantiene la sua immagine di perfetto gentleman”. L’incidente diplomatico fu rapidamente ricucito, anche se Nadal chiese scusa solo per la forma delle dichiarazioni, non certo per il contenuto. Le sue posizioni sono condivise da Novak Djokovic. “In effetti, il tennis è molto lento nell’effettuare i cambiamenti. Sono oltre 5 anni che proviamo a sistemare il calendario, i tornei, provare format differenti…ma il sistema attuale è radicato. E’ molto difficile da cambiare. Capisco Nadal quando dice che ha già fatto abbastanza, perchè è vero che non si può fare tutto da soli. Il problema è ben più profondo”. Anche se non ha ruoli ufficiali in Consiglio, anche Andy Murray è vicino alle posizioni di Nadal. Tempo fa, lanciò la provocazione di uno sciopero di due anni se le rimostranze dei giocatori non fossero state prese in considerazione. E Rafa ha ribadito la sua opinione a Shanghai. “Se ho detto certe cose è perchè le ritengo giuste. Se l’ATP mi chiedesse un’opinione, direi esattamente lo stesso. Ma tanto non cambierà nulla”. Purtroppo per Nadal, i tempi delle rivoluzioni sono finite da un pezzo. Gli anni 60 e 70 hanno creato scompiglio tanto nella società come nel tennis (furono gli anni dell’apertura ai professionisti, seguiti dalla nascita di ATP e WTA). L’ultima vera rivoluzione tennistica risale alla fine degli anni 80, quando i giocatori presero in mano il circuito a seguito della storica ribellione nel parcheggio di Flushing Meadows. Guarda caso, in quegli anni cadeva il muro di Berlino e c’era la protesta di Piazza Tienanmen. Oggi è tutto diverso. E le pretese di Nadal, per la loro difficile realizzazione, ricordano quelle di Pancho Villa, il mitico rivoluzionario messicano. Ma Rafa non ha intenzione di muoversi nell’illegalità, nè tantomeno ha alle spalle un esercito di giocatori-rivoluzionari. E allora si è ritirato nella sua “hacienda” di tennis, dove pensa soltanto a giocare. Giustamente, verrebbe da pensare.
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