Troppe wild card fanno male. Il fenomeno è molto sentito negli Stati Uniti, dove avere “tutto e subito” pregiudica la crescita delle giovani promesse. 
Ryan Harrison ha ricevuto ben 24 wild card nei tornei del circuito ATP

Di Riccardo Bisti – 19 febbraio 2014

 
Tutti le vogliono, tutti le desiderano. Chiunque vorrebbe una wild card per un torneo ATP. Ma siamo sicuri che ne valga la pena? Siamo certi che le "carte selvagge" servano alla crescita dei giovani tennisti? Spesso gli inviti servono a promuovere il torneo, offrendo al pubblico nomi che alimentano l’interesse. Ma vediamo come sono utilizzate e – soprattutto – sfruttate. Nel 2013 si sono giocati 61 tornei ATP (più gli Slam) e 149 challenger. Ognuno di questi ha a disposizione un certo numero di wild card. Le “carte selvagge”, di solito, sono affidate ai giocatori del paese del torneo, specie se giocani promettenti. Ma c’è un problema: non tutti i paesi sono uguali. Questo significa che la distribuzione degli inviti non è sempre equa. Gli Stati Uniti stanno vivendo una crisi organizzativa, ma sono ancora il paese con più eventi. Non c’è dunque da stupirsi se la maggior parte delle wild card finiscono ai giocatori americani. Nel 2012, una ricerca ha dimostrato che il 18,6% del totale era finito in mano a sette giocatori. Un’impressionante concentrazione di ‘ricchezza’ nelle mani di Mardy Fish, Donald Young, Ryan Harrison, Jesse Levine, John Isner, Sam Querrey e James Blake. Ma non sempre è un bene. Prendiamo tre giocatori che non sono riusciti a sfondare, almeno per ora: Young, Sock ed Harrison.
 
DONALD YOUNG
E’ il caso più eclatante di tutti i tempi. Young è stato numero 1 junior  a 15 anni. A suo tempo, una vicenda inedita. Ha vinto Australian Open e Wimbledon junior, attirando l’interesse di tutti gli appassionati. Per questo, ha raccolto la bellezza di 34 wild card, 27 per i tabelloni principali e 7 per le qualificazioni. Il suo record in questi tornei è agghiacciante: 14 vittorie e 34 sconfitte, con ben 25 eliminazioni al primo turno. Il problema è che lo invitavano nel tabellone principale dei Masters 1000 quando era ancora minorenne. Non era pronto, nè fisicamente nè mentalmente, a giocare a certi livelli. 10 di queste 34 wild card sono arrivate prima dei 18 anni. Al massimo è stato numero 39 ATP, e ancora oggi è vittima di terrificanti alti e bassi. Un paio di settimane fa ha esordito in Coppa Davis e ha raccolto pochi game contro Andy Murray.
 
JACK SOCK
Da junior, è stato il migliore americano degli ultimi anni. Ha vinto per due anni di fila i campionati nazionali giovanili, peraltro senza incontrare grosse difficolta. Risultato? Un mucchio di inviti. Ha raccolto 18 wild card, con un bilancio di 12 vittorie e 18 sconfitte e nove eliminazioni al primo turno. Per non smentirsi, lo hanno invitato anche questa settimana a Delray Beach. Curiosamente, Sock ha avuto un trattamento ben diverso rispetto all’altro americano Denis Kudla, suo avversario nella finale dello Us Open junior 2010. C’è stato un periodo, a cavallo tra il 2012 e il 2013, in cui ha ricevuto nove wild card contro una sola di Kudla. Una differenza enorme anche sul piano economico, tanto da garantirgli una differenza di quasi 50.000 dollari. Ma un dato fa riflettere: al termine del periodo, Kudla era numero 115 ATP, Sock 118. Significa che ha lavorato sodo e ha saputo essere più forte dei mancati aiuti.
 
RYAN HARRISON
Fenomeno di precocità. Non aveva ancora 16 anni quando si qualificò e vinse un match nel main draw al torneo ATP di Houston. Gli americani pensarono di aver trovato l’oro, così iniziarono a invitarlo un po’ dappertutto. Alla fine ha ricevuto 24 wild card. Il bilancio è leggermente migliore rispetto agli altri due (18 vittorie e 24 scontitte), ma ha perso al primo turno in 12 occasioni.
 
I tre hanno storie ed esperienze diverse, ma condividono lo stesso problema. Young ha saltato qualsiasi tipo di gavetta nel periodo di transizione tra junior e pro. Ha colto qualche buon risultato, ma la lunga serie di sconfitte lo ha messo in difficoltà sul piano mentale. A cavallo tra il 2010 e il 2011 non ha più avuto inviti ed è franato in classifica. Ha iniziato a giocare più match, partendo dal basso, e ha ottenuto i suoi migliori risultati (ottavi allo Us Open, top-40 ATP). Tali risultati sono stati il frutto del lavoro e non delle wild card. Poi è arrivato un altro momento difficile, che lo ha portato a perdere 17 partite di fila. Ma ha saputo riprendersi e tornare almeno tra i primi 100. Ancora oggi, non sembra avere il giusto atteggiamento in campo. Dipende da molte cose, ma aver avuto “tutto e subito” non gli ha certamente giovato. Per Sock, il problema riguarda la condizione fisica. Ha bisogno di giocare molto, e perdere in continuazione non gli consente di entrare in forma. Piuttosto che decine di wild card, gli converrebbe giocare i tornei più piccoli per mettere in modo il motore. Harrison era entrato tra i top-50 e per quasi un anno ha giocato esclusivamente i tornei del tour. Ma poi è sceso in classifica e adesso deve ripartire daccapo. Lui sogna di entrare tra i primi 10, ha motivazioni importanti, ma le mostra solo quando gioca nel tour. Osservando i suoi match nei tornei challenger, mostra una certa supponenza. Lo scorso anno ha raggiunto le semifinali all’ATP di Atlanta, poi ha perso al primo turno al challenger di Aptos. Motivo? Pensava che non fosse il posto giusto per lui. Ma se molli un attimo, vieni subito punito. In altre parole, i giovani americani hanno avuto troppe chance e non si sono costruiti una corazza sufficientemente solida. Storia molto diversa per alcuni giocatori che provengono da realtà diverse, meno ricche, ma che hanno avuto la possibilità di forgiarsi.
 
DOMINIC THIEM
Una settimana fa, ha forzato Andy Murray al terzo set e ha esaltato il pubblico di Rotterdam. Reduce da un’ottima carriera junior, ha avuto appena sette wild card, raccogliendo un bilancio di 6 sconfitte e 7 vittorie. A parte questo, si è costruito attraverso i challenger, le qualificazioni e addirittura qualche future. Nel 2014, senza regali, si è qualificato a Doha, Australian Open e Rotterdam. Grazie a questi risultati, è entrato tra i top-100 senza alcun regalo.
 
JIRI VESELY
E’ un caso ancora più estremo. In tutta la carriera, ha usufruito di una sola wild card (più sette nei challenger). Nel 2013, ha giocato quasi esclusivamente nei tornei minori. Ma ha raccolto decine di vittorie, arrivando quasi sempre in fondo. E’ dunque entrato tra i primi 100 senza vincere una sola partita nel circuito maggiore. L’impatto con il tour non è stato semplice, ma ci è arrivato solo con le sue forze. Magari avrà bisogno di un po’ di tempo, magari scenderà, ma sa come ci si arriva. E quindi saprà come fare se dovesse ripartire daccapo.
 
BRADLEY KLAHN
Americano atipico. Il suo percorso è stato profondamente diverso da quelli di Young, Sock ed Harrison. Anzichè lanciarsi nel tour, ha preferito dedicarsi all’attività universitaria. Per questa ragione, ha ricevuto appena tre wild card (due di queste sono arrivate a San Josè perchè giocava dalle parti di Stanford). Fino a quando non si è laureato, non gli hanno regalato nulla. E lui ha lavorato, lottato e si è migliorato fino a raggiungere il numero 67 ATP. Per lui non è mai stato un problema giocare i tornei challenger. Anzi.
 
Un eccessivo numero di wild card, dunque, non fa bene allo sviluppo dei giovani tennisti. E' un grosso problema negli Stati Uniti. Dalle altre parti del mondo, senza le stesse opportunità, i giocatori sono costretti a forgiarsi alla vecchia maniera, a conquistarsi la pagnotta partendo dal basso. L’impressione è che debba cambiare qualcosa, magari intensificando il processo dei play-off già esistente per le wild card nei tornei del Grande Slam. Lo fanno in Australia e lo fanno anche negli Stati Uniti, obbligando a vincere tre partite per ottenere l’agognata carta selvaggia (e i relativi guadagni). A Wimbledon, una wild card viene assegnata al vincitore del challenger di Nottingham. In altre parole, c’è bisogno di meritocrazia. Anche in Italia, per gli Internazionali di Roma, addirittura tutti i tesserati hanno la chance di avere una wild card per le qualificazioni. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di porre un limite alle wild card che ogni giocatore può ricevere. Certo, giocare nel main draw di un grande torneo fa gola a molti. Ma andate da Young, Sock ed Harrison e dite loro che Tomas Berdych e Janko Tipsarevic non hanno ricevuto una sola wild card prima dei 25 anni. Vedrete che faccia faranno.