Il giudice di sedia ha decretato l'inizio del gioco e Sampras si predispone a servire sollevando la punta del piede anteriore mentre lancia alta la palla in quel modo tutto suo. Non ero mai riuscito a vedere Sampras giocare dal vivo, ed è un atleta molto più bello di quanto sembri in tv. Non è particolarmente alto né muscoloso,
ma ha un servizio dall'effetto quasi wagneriano e da distanza così ravvicinata si vede che è perché Sampras ha un misto magico di flessibilità e tempismo che gli permette di riversare tutto il peso della schiena e del busto nel servizio – l'intero corpo scatta come di norma solo un polso sa fare – e che dipende dalla posizione curva e raggomitolata da cui avvia i movimenti del servizio, sollevando solo la punta del piede anteriore e prendendo la mira da sopra la racchetta come se avesse una balestra, una serie di movimenti che in tv sembrano tic eccentrici ma che dal vivo danno l'impressione che il corpo sia un unico grosso muscolo, una specie di anguilla arrabbiata pronta al guizzo.
Philippoussis, che tra un punto e l'altro ama fare un piccolo balletto sul posto, aspetta il servizio senza tradire la minima espressione. La fascia che ha in testa si abbina alla maglietta a strisce tipo caramella. I display dei tabelloni segnapunti ora sono programmati per tenere il punteggio anziché lampeggiare pubblicità. Il nome di Philippoussis si ritaglia una bella fetta orizzontale di ogni tabellone. La parete tra lo Stadium e il Grandstand (a E rispetto a noi) è sormontata dalla tribuna stampa che la percorre per intero e fondamentalmente sembra la più grande casa mobile del mondo, gli scuri alle finestre calati contro il sole pomeridiano.
Tre punti hanno dato come risultato un ace, una risposta vincente e un lungo scambio che si conclude quando Philippoussis scende a rete invitato da una palla non esattamente indirizzata sul rovescio e Sampras cerca l'angolino alla destra del rettangolo di servizio caricando incredibilmente il colpo. La ferocia del rovescio di Sampras è un'altra delle cose che la tv non comunica bene, il suo controllo sull'ovale della racchetta fa pensare più a quei colossi da terra battuta con gli avambracci come cosce di bue, il topspin così caricato da distorcere la forma della palla mentre il passante cade giù a piombo. Il malvagio ma cyborghiano Philippoussis finora non ha tradito niente che somigli a una vera espressione facciale.
Si direbbe che nemmeno sudi (13). Due tipi attempati nella fila subito dietro la mia esortano Sampras sottovoce, chiamandolo «Petey», e mi viene spontaneo pensare che siano amici o parenti. E appollaiata sopra la tribuna stampa – cioè più o meno all'altezza dell'antenna di una stazione radio – c'è una pubblicità che gli US Open 1995 fanno a se stessi. È l'enorme stampa puntinista nei colori pastello di un pubblico dello Stadium Ntc intorno a un campo smisurato, la prospettiva stranamente scorciata e il famoso skyline di Manhattan immediatamente sullo sfondo come decisamente non si staglia nel vero Flushing Meadows del Queens; e sopra e oltre il cartellone la grossa zucchina del dirigibile della Fuji Inc. galleggia lenta contro il ceruleo del cielo estivo di gran lunga più bello che abbia mai visto a New York City.
Non solo l'aria del weekend del Labor Day agli Open 1995 è priva di umidità e intorno ai ventisei gradi, il sole cocente, il vento leggero e il cielo dell'azzurro troppo vivido di un film colorato, ma l'aria del cielo è limpida, l'aria ha il profumo buono, intenso e dolce dei panni stesi ad asciugare, risultato non solo di un mese senza pioggia ma anche di un assurdo fronte di alta pressione che questo weekend è frullato fuori dallo spazio aereo sopra la Nuova Scozia spazzando gli ossidi e le puzze che NYC si merita e spedendoli sul New Jersey. L'aria nella conca dello Stadium si fa più fina e pungente man mano che sali lungo gli spalti, finché, se monti sopra il frigo portatile Michelob che qualcuno ha introdotto clandestinamente nell'ultima fila di gradinate (14), sbirci da sopra la parete che dà a E oltre il bordo della tribuna stampa e guardi giù oltre il grosso cartello che dice:
BENVENUTI AGLI US OPEN 1995
Un torneo Usta
vedi arrivare loro, Loro, un'enorme massa serpentina, gli spettatori che ancora arrivano alle 16.15 e visti da questa distanza sembrerebbero tutti i newyorkesi che non si sono rifugiati negli Hamptons per il lungo weekend estivo. Gli US Open sono un grande evento per NYC. Il sindaco Dinkins non c'è più – quel Dinkins che faceva deviare le rotte di atterraggio all'aeroporto LaGuardia apposta per gli Open – ma, anche sotto Rudy Giuliani, per due settimane una città che di norma non darebbe un soldo bucato per uno sport aristocraticamente privo di contatto fisico come il tennis mostra grande partecipazione. Al Bowery Bar arbitraggisti trentenni in smoking non a noleggio dissezionano le partite e speculano su come la temporanea assenza della Seles dai campi da gioco condizionerà i suoi contratti pubblicitari ora che è tornata. I portieri croati lamentano la prematura uscita di scena di Ivanisevic. In metropolitana, un drappello di ragazzotte toste in tenuta di pelle e capelli fosforescenti conviene che anche se la Graf, la Seles e la spagnola con quella faccia e l'imene (15) nel nome potrebbero dominare la classifica, guai a scordarsi dell'americana Zina G. che questo è il suo canto del cigno prima, tipo, che esca di scena. Oppure, per esempio, venerdì primo settembre, il giorno dopo la rinascita di Agassi in cinque set contro Corretja, un conducente di autobus libanese della Grey Line in servizio dall'aeroporto LaGuardia si ritrova perfettamente d'accordo sulla riabilitazione di Agassi come uomo con un anziano passeggero masticatore di sigaro mai visto né conosciuto:
Dice che prima era una peste, un arrogante, capito che intendo?
È cresciuto. Ora ha le palle.
Ieri sera sì che ha giocato una gran partita. Ecco che intendo.
Prima era solo un capellone. Ora è cresciuto. Ora è una persona (16).
Fatto sta che arrivano, quarantamila ieri e quarantunomila oggi, pronti a scucire venticinque-trenta dollari per un biglietto, sempre che riescano a procurarselo (17). Arrivano con la metropolitana infernale e stigia dell’Irt scendendo al capolinea della linea 7, la fermata Shea-Willets. Convergono nel Queens NE tramite le autostrade Van Wyck, Long Island e Whitestone, tramite l’Interborough, la Grand Central Parkway, il Cross Bay Boulevard, portandosi dietro quattrini in quantità e qualunque santino aiuti a trovare parcheggio. I residenti solcano i canyon deserti di Manhattan a bordo di limousine, taxi o autobus durante il weekend del Labor Day, puntando alla Trentaseiesima Strada e al Tunnel o alla Cinquantanovesima e al Queensborough Bridge, poi impiegano una vita a risalire il Northern Boulevard, armati di borse termiche, coperte, racchette, cuscini da mettere sotto il sedere con la scritta GIANTS o JETS, protezioni solari e cappellini ricordo degli Open dell’anno scorso, risalgono il Northern Boulevard sovrastati dai ghirigori del traffico aereo finché non vedono spuntare i primi baluardi: il tozzo anello azzurro-neutrone del vicino Shea Stadium; l’enorme sfera armillare d’acciaio e la torre di fattura grossolana del World’s Fairgrounds ’39 attigua al National Tennis Center nel Flushing Meadows Corona Park (18).
Il cancello principale dell'Ntc è sul lato NE del complesso, collegato alla fermata della linea numero 7 e ai parcheggi da un'ampia passeggiata di cemento che dalla stazione S dei pendola- ri sfila davanti agli uffici dei guardaparco e a un paio di grossi circoli comunitari all'aperto – il genere di piazzole urbane all'aperto che al centro dovrebbero avere una fontana zampillante, anche se queste non ce l'hanno – con le panchine verdi, le intricate piste da skateboard e un commercio sottobanco vigoroso e sinistro. A un certo punto la passeggiata curva bruscamente a O e la ressa mobile degli Open sfila sotto gli occhi dei tanti che fanno picnic e giocano a calcio all'Fmc Park (nei prati a cui allude il «Meadows» del nome, evidentemente); dopodiché l'ultimo rettilineo asfaltato del passaggio pedonale è racchiuso da alte recinzioni sormontate dalle bandiere di tutte le nazioni andando verso le linee parallele dell'ingresso vero e proprio al cancello principale del torneo, cancello che è di per sé un'alta recinzione di ferro nero di una solidità quasi medievale, sormontata a sua volta solo dalle care vecchie bandiere americane, con i soliti saluti e l'autorevolezza degli Open/Usta riportati in sfrontate lettere maiuscole luminose di 160 punti su un'insegna appesa sopra i tornelli, tornelli che sono sei in totale anche se non ce ne sono mai più di tre in funzione. I tornelli sono riservati a chi ha già il biglietto (19) – la lunga fila da blocco sovietico al botteghino per i biglietti della mattina evapora puntualmente intorno alle undici, quando risoluti megafoni annunciano per quel giorno il tutto esaurito.
Oltre a Stadium/Grandstand, ci sono altri tre «Show Courts» all'Ntc, campi cioè con gradinate degne di questo nome. Alle 16.40 nel Campo 16 si tiene il doppio maschile con Eltingh-Haarhuis, la squadra numero 1 al mondo, e il piccolo cuneo di spalti in alluminio non è nemmeno pieno. Il pubblico tennistico americano sembra orientato decisamente verso i singolari. Il Campo 17 vede schierati Korda e Kulti contro il matto delle Bahamas Mark Knowles e Daniel Nestor, suo compagno del 1995, il canadese che a guardarlo è uno spasso per quanto somiglia a un Mick Jagger anoressico. Nel Campo 18 si tengono i doppi femminili con quattro giocatrici dai nomi a me ignoti e ben trentuno spettatori sugli spalti.
(Le quattro donne del 18 hanno tutte gli avambracci più grossi dei miei). Natasha Zvereva, che sembra incompleta senza Gigi, è nel Grandstand a riscaldarsi contro Amy Frazier. Nello Stadium, Philippoussis e Sampras si sono spartiti i primi due set vincendoli a 6 e a 5. Dall'esterno dello Stadium una partita importante sembra tutta una breve esplosione di applausi e fischi da far tremare le fondamenta seguiti ogni tanto dall'amorfa amplificazione della voce del giudice di sedia nell'improvviso silenzio creato dal suo intervento. Il cognome di Daniel Nestor oltre che ellenico è omerico (20), e perciò evoca un periodo bellico di gran lunga antecedente Atene contro Sparta. Il fatto che Sampras abbia vinto tantissimi Grand Slam c'entra forse molto con il fatto che le partite maschili degli Slam siano al meglio dei cinque set.
Il meglio dei cinque set richiede non solo resistenza fisica ma uno speciale tipo di flessibilità emotiva: al meglio dei cinque set non puoi giocare sempre al massimo dell'intensità; devi sapere quando forzare e quando tirare i remi in barca e risparmiare risorse psichiche (21). Philippoussis ha vinto al tie-break un primo set in cui Sampras ha dato l'impressione di regolare il minimo del suo gioco, di cercare il livello esatto che gli serviva raggiungere. La suspense della partita non è se Sampras vincerà o meno ma quanto impegno dovrà metterci e quanto tempo gli richiederà scoprirlo. Philippoussis picchia duro, ma se l'immaginazione gli fa difetto, la flessibilità non sa nemmeno cosa sia. È come una macchina con una sola marcia: a meno di non spezzargli il ritmo con un tiro molto esterno, avanti-e-indietro è la sua unica direzione di rotta. Sampras invece sembra aleggiare come forfora per tutto il campo (22). Philippoussis somiglia a un grande e temibile esercito; Sampras è più navale, della scuola che manovra-e-accerchia.
Philippoussis è oligarchico: ha una volontà e cerca di imporla. Sampras è più democratico, cioè più caotico ma anche più umano: sembra che il suo vero compito sia capire qual è esattamente la sua volontà. In pochi ricordano che in realtà Atene ha perso la guerra del Peloponneso: ci sono voluti trent'anni, ma alla fine Sparta l'ha spuntata. E in tanti non sanno che è stata Atene a cominciare tutta la maledetta faccenda attaccando briga con gli alleati marittimi di Sparta che si intromettevano nei commerci via mare di Atene. L'immagine di una Atene simpatica e perbene ormai è un po' frusta: tanta fatica per una questione legata fin dall'inizio al commercio. La cosa divertente nell'avere un pass stampa agli US Open 1995 è che puoi entrare e uscire dal cancello principale tutte le volte che vuoi. Gli spettatori paganti non hanno questa fortuna: un cartello vicino ai tornelli dice, con tanti punti esclamativi, che chi esce poi non rientra più. E le file per entrare ai tre tornelli in funzione ricordano le lugubri foto del pubblico che se ne va scalpicciando alle partite di calcio del Terzo Mondo. Il torneo paga certi vecchietti incartapecoriti per stare ai tornelli a ritirare i biglietti degli spettatori – gli stessi vecchietti incartapecoriti che vedi ai tornelli delle manifestazioni sportive di ogni dove, di quelli a cui sembra sempre che manchi il fez da Shriner.
In questo momento, sono le 17.38, a superare uno dei tornelli è un bel nero pelato con uno sciccosissimo abito di cammello Dries Van Noten. A spingere con il fianco il tornello accanto (23) è una donna in tailleur pantaloni blu elettrico di seta o di ottimo rayon. Al terzo tornello in funzione un tipetto giovane dall'aria straniera con una costosa camicia a quadri, i Ray-Ban e un telefono cellulare discute col bigliettaio. Il ragazzo sostiene di aver comprato i biglietti per il 3/9 ma di averli sbadatamente lasciati a casa a Rye e col ca-vo-lo che un bigliettaio incartapecorito col minimo salariale lo costringerà a farsi tutta la strada fino a Rye per prenderli e poi a rifarsi un'altra volta tutta la strada per tornare. Stringe il cellulare stando addosso al bigliettaio:
deve pur esserci il modo, insiste, di verificare l'acquisto dei biglietti senza bisogno di fare avanti e indietro per esibire quegli stupidi rettangolini di cartone. Il bigliettaio, in un completo blu che gli dà un po' l'aria del controllore ferroviario, scuote la testolina nodosa e solleva le braccia nel gesto al tempo stesso impotente e irremovibile del: «Non so che farci, caro mio». Il ragazzo di Rye in camicia a quadri continua ad aprire il cellulare e fa per comporre un numero con aria intimidatoria, quasi minacciasse di fargliene cantare quattro da un'oscura figura dell'olimpo dirigenziale degli Open; ma l'impassibile impiegatuccio non batte ciglio, la faccia inespressiva e le braccia sollevate (24) finché la folla tanto preme alle spalle e ai fianchi del tipo in camicia a quadri da costringerlo ad abbandonare il campo.
Per prima cosa varcando il cancello principale vedi squadre di ragazze e ragazzi bellissimi che distribuiscono gratis confezioni di stagnola di caffè colombiano prese da grossi barili di plastica che ritraggono Juan Valdez & il fedele mulo. I ragazzi, nessuno dei quali è di origini colombiane, sono allegri ed espansivi ma non sembrano particolarmente attenti, perché continuano a darmi campioni gratuiti ogni volta che esco e poi rientro, e ormai ho la borsa dei libri che straripa e non dovrò comprare caffè per mesi. Subito dopo vedi uno strillone su una predella che esorta all'acquisto del «Daily Drawsheet» per due dollari (25) o di giornale + programma delle gare in offerta a otto dollari. Vicino allo strillone c'è una strepitosa automobile Infiniti nuova fiammante su una complicata pedana che le dà un'angolazione decisamente a strapiombo.
Non si capisce quale sarebbe il nesso tra una bella automobile nuova e il tennis professionistico ma la concomitanza visiva di auto e angolazione a strapiombo è impressionante e avvincente e intorno all'Infiniti c'è sempre una fitta cerchia di spettatori che la guardano senza però toccarla. Poi, sopra la spalla destra del venditore di «Daily Drawsheet» e situata guarda caso vicino al botteghino dei biglietti in prevendita, ecco quella che dev'essere una delle più grosse postazioni bancomat del mondo occidentale, con la sua brava tettoietta e ben tre sportelli dotati di complessi e sofisticati controlli tipo-Nasa ed enormi cartelli con su scritto che il servizio è generosamente offerto dalla Chase e che è in grado di erogare denaro tramite le reti Nyce, Plus, Visa, Cirrus e Mastercard. Le file al bancomat sono così lunghe da creare complicati intrecci con le file agli stand più vicini.
Stand che sembrano aver subito una specie di metastasi rispetto all'anno scorso: ormai infestano ogni angolo dell'Ntc. Ho il forte sospetto che la verità su come si ottenga una concessione per vendere prodotti agli US Open rivelerebbe intrallazzi e pastette da far impallidire lo spettacolo che si tiene sui campi da gioco, perché se c'è un luogo dove lo spettatore viene davvero separato dal suo denaro è agli stand dell'Ntc, che fanno tutti affari al ritmo di ferramenta e supermercati costieri durante l'allerta per un uragano. Le singole postazioni dotate di piccoli ombrelloni della Evian e della Häagen-Dazs sono niente in confronto al fuoco di fila dei centri commerciali in miniatura che costeggiano quasi ogni marciapiede, passerella e via d'accesso – inclusa la galleria anulare al piano terra di Stadium/Grandstand – e che vendono gazzose tra i due dollari e cinquanta e i tre dollari e cinquanta, acqua a tre dollari, piccoli cartocci di nachos o di patatine rotonde a trama incrociata con l'olio che impregna subito il cartoccio a tre dollari, birra a tre dollari e cinquanta, popcorn a due dollari e cinquanta (26) eccetera (27).
Un gigantesco boato che fa traballare l'intera sovrastruttura dello Stadium indica che le forze della democrazia e della libertà umana hanno vinto il terzo set (28). È chiaro che Sampras ha trovato la sua altitudine di crociera e che Philippoussis dovrà accontentarsi di aver vinto il primo set, farne tesoro e andare a casa a sollevare altri pesi in vista della stagione indoor dell'Atp.
13 Un'altra cosa di Sampras che fa tenerezza è che inzuppa sempre di sudore i pantaloncini azzurro neonato in un modo imbarazzante che fa pensare all'incontinenza e rivela agli occhi del mondo le strisce del sospensorio. Questo riescono a catturarlo perfino le immagini crude della tv e se mi piace tanto forse è perché rende Sampras umano e mi permette di identificarmi con lui in un modo precluso dalla bellezza semplicemente soprannaturale del suo gioco. Altre debolezze analoghe capaci di rendere umani i giocatori trascendenti per me erano le escandescenze assurde di McEnroe, l'abitudine di Lendl e della Navratilova di perdere ogni tanto le staffe e prendersela talmente per un punto da sembrare quasi spastici e spedire la palla abbondantemente al di qua della rete, e la compulsività di Connors nel toccarsi e sistemarsi i testicoli dentro il sospensorio in campo, come se avesse continuamente bisogno di sapere dov'erano.
14 L'ascesa dello Stadium procede così: prima ci sono dieci file di sedili blu – sedie di plastica vera, i posti in tribuna – poi quindici file di sedili azzurri, poi diciotto di sedili di plastica sagomata grigi molto meno comodi, poi (i gradini ormai talmente ripidi da farti sentire come un bambino piccolo che sale le scale) file e file di semplici gradinate rosse, patria di berretti Mets girati al contrario, tatuaggi e scarpe da ginnastica alte slacciate, con il clacson greve degli accenti di Brooklyn e una grande e rumorosa accozzaglia di bicchieri del Liquor Bar vuoti sospinti dal vento sul cemento dei corridoi lungo le gradinate… e durante la scalata le orecchie scoppiettano letteralmente, l'O2 si fa fino e il campo di sotto assume una prospettiva orripilante, come visto da un grattacielo, i giocatori hanno un che degli insetti e il pubblico si muove e si solleva in un modo nauseante dando l'impressione che l'intera struttura si sollevi e ondeggi leggermente.
15 (sic – non scherzo).
16 Il nuovo taglio a spazzola, le scarpe da ginnastica nere e la nuova maglietta stile combattente della resistenza francese di Agassi l'hanno reso, agli Open di quest'anno, molto più popolare presso i fan maschi e appena appena meno sexy e affascinante presso le femmine. (Il sex-simbolismo di Agassi è un fenomeno profondamente misterioso per la maggior parte dei maschi di mia conoscenza perché abbiamo tutti ben presente che Agassi in realtà è un piccoletto con la faccia schiacciata e la testa dalla strana forma [messa ancora più in risalto dal taglio a spazzola] che cammina strusciando un po' i piedi e buttandoli in dentro come uno scolaretto con le mutande incastrate in mezzo alle chiappe: e non riusciamo proprio a capacitarci del fascino e della presa che Agassi esercita sulle donne).
17 Il botteghino del National Tennis Center apre alle dieci e già dalle sei la gente comincia a mettersi in fila nella speranza di procurarsi uno dei pochi lasciapassare per tutti i campi, e siparietti e incentivi vari in questa fila mattutina di newyorkesi scafati costituiscono una storia a sé.
18 È il vero nome del parco che ospita il National Tennis Center dell'Usta, ed è quasi perfetto perché inconsapevolmente coglie l'essenza di Queens NE, connotando in uguale misura detriti di fogna urbani, pastorale suburbana e sole impietoso.
19 I bagarini chiedono e ottengono centoventicinque dollari per un pass per tutti i campi e (almeno in un caso) il doppio per un posto di undicesima fila allo Stadium durante le partite del pomeriggio. L'ultimo rettilineo del passaggio pedonale che conduce al cancello ha la sua brava dose di bagarini che fanno le loro profferte ellittiche dal ciglio erboso, anche se (stranamente) sul ciglio ci sono quasi altrettanti tipi dall'aria furtiva che chiedono senza mezzi termini se a qualche passante avanza un biglietto da vendere, o se per caso non vuole vendere il suo, come fosse un bagarino. I bagarini e i tipi strani che istigano al bagarinaggio sembrano ignari gli uni degli altri mentre parlano sommessamente tutti assieme e questo rende l'ultimo tratto pre-cancello della passeggiata di una tristezza surreale, uno studio sui collegamenti mancati.
20 (il saggio re di Pilo e compagnia bella).
21 Una volta nel 1979 ho giocato due partite al meglio dei cinque set in una sola giornata nell'ambito di una strana cosa juniores non-Usta alle porte di Chicago, e una partita è durata cinque set e l'altra quattro e, anche se avevo appena diciassette anni, dopo ho camminato come un vecchietto per diversi giorni. E siccome la flessibilità emotiva è praticamente impossibile per gli juniores, ricordo di aver notato che tutti noi che avevamo giocato al meglio dei cinque set andandocene sembravamo completamente distrutti sul piano emotivo, con l'occhio vitreo e lo sguardo fisso a un chilometro di distanza di chi è sopravvissuto a un pogrom. Da allora, ogni volta che vedo un tennista giocare in uno Slam provo una speciale compassione empatica.
22 Sampras dà l'impressione di colpire una palla e smaterializzarsi, rimaterializzandosi poi da un'altra parte nella posizione perfetta per il tiro successivo. Non ho una teoria su come faccia. Che io ricordi, Ken Rosewall è l'unico altro giocatore che sembrava capace come lui di guizzare dentro e fuori dall'esistenza. (Ne era capace anche Evonne Goolagong, ma a singhiozzo).
23 Essendo NYC una delle città al mondo con la più alta densità di tornelli, i newyorkesi li oltrepassano con la stessa elegante disinvoltura ostentata dai veri campioni quando fanno riscaldamento.
24 Il bigliettaio, che si è rivelato senz'ombra di dubbio il mio personaggio preferito di tutti gli Open 1995, ha accettato di rilasciare una breve intervista a condizione che non comparisse il suo nome: a quanto pare il torneo ha davvero oscure figure nell'olimpo dirigenziale di cui i dipendenti temono le ire. Il bigliettaio ha sessantun anni, lavora alle «sbarre» (come le chiama lui) ogni US Open da quando Ashe ha piegato in cinque set sia Graebner sia Okker a Forest Hills nel '68, trova l'Ntc di Flushing Meadows inferiore sotto tutti gli aspetti al caro vecchio Forest Hills, sostiene che il nuovo Stadium ancora incompleto che svetta sull'orizzonte meridionale è ridicolo e inutile perché, data la mole, i posti più economici si ritroveranno ai limiti estremi della visione umana e una partita vista da lassù sembrerà una cosa vista da un Boeing in accostamento, per non dire che il nuovo Stadium è stato uno spreco di tempo e di denaro fin dall'inizio e che è infestato dalla corruzione, dal malaffare e da un marciume amministrativo generalizzato – il tipo ha una felicità linguistica e aneddotica incredibile e un attaccamento furibondo e davvero commovente a uno sport che pare non abbia mai praticato in vita sua, e sono convinto che l'anno prossimo meriti un articolo a parte su Tennis. L'incarico annuale agli Open rappresenta le sue due settimane di ferie dal normale lavoro di casellante al malfamato Throgs Neck Bridge tra Queens e il South Bronx, il che forse spiega la risolutezza inflessibile di fronte alle tattiche intimidatorie di uno che brandiva un telefono cellulare.
25 Il «Daily Drawsheet» ha la particolarità di essere l'articolo più economico degli US Open 1995. Segue una gazzosa piccola carica di ghiaccio a due dollari e cinquanta.
26 (Popcorn del tipo giallo scuro e salatissimo da accompagnare rigoro-samente con una bibita – altrettanto dicasi per i grossi pretzel bollenti del tipo da chioschetto-d'angolo-a-Manhattan, con i chicchi di sale così grossi che vanno staccati e masticati a parte. I pretzel degli US Open costano tre dollari ovunque fuorché all'International Food Village nel lato sud dello Stadium, un carosello di chioschi e gente che mangia dove il prezzo dei pretzel scende a due dollari e cinquanta).
27 Prendiamo per esempio una barretta striminzita della Häagen-Dazs – davvero striminzita, cinque morsi a dir tanto – al costo criminoso di tre dollari e come sempre qui ai chioschi del cibo ti senti defraudato e oltraggiato dal prezzo finché non dai il primo morso e scopri che è una barretta Häagen-Dazs squisita. Il fatto è che con la fame stimolata dal sole, dall'aria fresca, dalla visione della partita e dalla salivazione empatica provocata dalla vista di tutti gli altri spettatori che masticano, le barrette Häagen-Dazs non varranno tre dollari ma due e cinquanta li valgono di sicuro. Dovrei anche aggiungere che il caffè colombiano era GRATIS a tutti gli stand dell'Ntc durante il weekend del Labor Day: rientrava nel blitz di marketing forsennatamente aggressivo di Juan Valdez quest'anno a Flushing Meadows. È sembrata davvero una buona cosa finché non si è scoperto che il novanta per cento delle volte gli stand dichiaravano di essere rimasti misteriosamente «temporaneamente a corto» di caffè colombiano e tu ti ritrovavi a scucire la bellezza di due dollari e cinquanta per una Diet Coke strapiena di ghiaccio che prendevi perché oramai avevi fatto una fila troppo lunga per andartene a mani vuote. Non è da escludere che gli stand avessero finito davvero il caffè – essendo «GRATIS» il prezzo al quale la curva della domanda raggiunge il suo apice massimo, come ogni venditore sa bene – ma il consumatore statunitense smaliziato che c'è in me aveva comunque il forte sospetto che in alcuni di quegli stand il caffè fosse uno specchietto per le allodole, e quelli dietro al bancone somigliavano tanto a detenuti di Rikers Island con un permesso premio lavorativo o a ceffi dall'aria minacciosa normalmente in servizio notturno a Port Authority o alla Penn Station venuti qui per arrotondare il salario. Fatto sta che a ogni chiosco dell'Ntc c'erano sempre lunghe file e che in ogni momento vedevi un buon sessantasei per cento del pubblico di Stadium, Grandstand e Show Courts ingerire qualcosa comprato agli stand.
28 E, tanto per essere adeguatamente colpiti dal volume di consumazioni agli stand, va tenuto presente che procurarsi qualcosa mentre si assiste a una partita di professionisti non è impresa facile. Prendiamo lo Stadium. Puoi allontanarti dal posto solo durante i novanta secondi di interruzione dopo i game dispari, dopodiché ti tocca fare una specie di slalom giù per le scale gremite dello Stadium fino allo stand più vicino, sorbirti una lunga fila hobbesiana, sganciare una cifra da frode e risalire faticosamente le scale, contorcendoti e zigzagando per evitare gomiti capaci di spedire la merce acquistata a caro prezzo a far compagnia a quella già finita sul croccante sub- strato organico che stai calpestando… e ovviamente quando trovi le scale che conducono al tuo settore di posti i novanta secondi di interruzione del gioco originari sono finiti da un pezzo – come del resto quelli successivi, il che significa che ti sei perso come minimo due game – il gioco è ripreso e i sorveglianti vicino alle grosse catene sbarrano l'accesso e tu rimani impantanato in un corridoio di cemento privo di ventilazione sul pavimento appiccicoso e in pendenza, strizzato tra un ammasso di gente che come te è uscita a prendersi qualcosa e ora aspetta il break successivo per tornare al posto, e ve ne state tutti lì accalcati tra il ghiaccio che si scioglie e i crauti che si congelano cercando di mettervi sulle punte per sbirciare il minuscolo arco incatenato di luce in fondo alla galleria e cogliere magari il barlume verde della pallina o un frammento surreale della coscia sinistra di Philippoussis che nel frattempo si catapulta a rete… La pazienza dei newyorkesi per folle, file, frodi, e attese fa davvero effetto se non ci sei abituato; se ne stanno buoni buoni in luoghi asfittici per periodi lunghissimi, negli occhi quella combinazione puramente newyorkese di meditazione zen e depressione clinica, un'infelicità dichiarata mai condita da una lamentela.
Una miniatura dell'impianto di Flushing Meadows. Dal 2017, l'Arthur Ashe Stadium sarà dotato di un tetto retrattile.