Severin Luthi è l’uomo di fiducia di Roger Federer. Da giocatore aveva battuto Kuerten, da coach ha saputo sfruttare un’incredibile serie di colpi di fortuna. E oggi è il più invidiato di tutti.

Di Riccardo Bisti – 27 novembre 2014

 
“Mi piacerebbe farmi una bella vacanza alloggiando in un Holiday Inn. Credo che sia meglio tenere i piedi per terra: se voli troppo in alto, la caduta sarà ancora più dolorosa”. Non sono parole di un filosofo, bensì di Severin Luthi, il capitano che ha condotto la Svizzera al trionfo in Coppa Davis. Da 7 anni è l'ombra di Roger Federer. Un uomo che parla poco, spesso mastica una caramella, anche quando rilascia interviste. Ma è stato fondamentale nella carriera dello svizzero, molto più di quel che appare. Se Roger ha avuto (e ha) a che fare con coach molto importanti, Luthi continua ad essere un punto fermo. "Seve", come lo chiamano nel tour, ha avuto la fortuna di trovarsi sempre al posto giusto e al momento giusto. Classe 1976, da ragazzino puntava a diventare un campione, o almeno raccogliere l’eredità di Marc Rosset e Jakob Hlasek. Partito da Stettlen, periferia di Berna, ha sviluppato un bel tennis a tutto campo, efficace anche senza un colpo-killer. Ma quando ha battuto Gustavo Kuerten all’Orange Bowl, le illusioni sono salite ai massimi livelli. “Quella vittoria non significava che avrei vinto il Roland Garros, ma diciamo che ero sulla buona strada” racconta oggi, dove i jet privati e gli hotel a cinque stelle sono diventati la normalità. Stare al fianco di Federer può essere facile, ma allo stesso tempo è dura: ci si abitua a uno standard di vita impressionante. E mantenere i piedi per terra è tutt’altro che scontato. Forse è proprio per questo che sogna una vacanza “normale”, magari in compagnia della storica fidanzata Claudia Marcon, bernese di Uetendorf. Stanno insieme da 11 anni e spesso la si vede nel clan Federer a bordo campo. Dopo quel successo su Guga, Luthi è entrato nel tour ma ha trovato le porte sbarrate. Non aveva potenza, o forse era troppo cerebrale in un mondo dove i risoluti hanno sempre la meglio. Morale: non è mai entrato tra i top-600 ATP.
 
LA MORTE DI CARTER E LA CHIAMATA DI LUNDGREN
A 20 anni ha smesso di giocare ed è entrato nel mondo del lavoro. Si è diplomato, poi è finito nella società di un amico del padre, che produceva materiale promozionale. Come vedremo, l’esperienza gli sarebbe tornata utile. Già che c’era, si è iscritto all’Università di Berna, facoltà di economia. Ma è durata poco, non perchè non fosse capace. Semplicemente, non gli interessava. “Ho capito che la mia vita era lo sport, magari il tennis. Per restare a contatto col nostro mondo, le gare a squadre sono state fondamentali". Si è infilato presso il Club Grasshoppers, dove non si gioca soltanto a calcio, e ha partecipato alla Serie A svizzera, prima da giocatore e poi da capitano. Swiss Tennis, la federazione svizzera, lo ha notato e gli ha offerto una serie di lavori. Ha anche fatto da sparring partner a Martina Hingis ai tempi della Fed Cup. Ma nessuno avrebbe immaginato quel che sarebbe successo nel 2002. Peter Carter, ex coach di Roger Federer, morì in un incidente stradale in Sud Africa. Gli avevano appena assegnato l’incarico di capitano di Coppa Davis. Il ruolo fu preso da Peter Lundgren, all’epoca coach di Federer. Lo svedese lo chiamò e gli chiese se voleva fare da assistant coach. Per lui, che aveva appena messo in piedi la società HI-PRO insieme a Ivo Heuberger (si occupa di materiale promozionale e ancora oggi produce le divise del team svizzero di Coppa Davis), era il massimo. Si è trovato al posto giusto al momento giusto, ok, ma si è fatto apprezzare fino a diventare capitano nel 2005. E il rapporto con Roger Federer si è intensificato, giorno dopo giorno. Roger ne ha apprezzato la competenza, la pacatezza, la totale disponibilità. Gli sarà anche piaciuto l’atteggiamento. Da capitano, avrebbe potuto insistere per averlo più spesso in squadra. Non l’ha mai fatto.
 
LA COMBINAZIONE PERFETTA
La seconda svolta è arrivata nella primavera del 2007. Federer aveva appena perso da Filippo Volandri agli Internazionali BNL d’Italia e aveva sancito il divorzio da Tony Roche. “Mi ha chiesto di andare a Parigi con lui perchè era rimasto senza coach”. E’ iniziata una collaborazione viva ancora oggi, culminata nel trionfo di Lille, quando Luthi è stato il primo ad abbracciare Federer dopo il punto che è valso l'Insalatiera. Nel 2008 e nel 2009, zitto zitto, è stato il suo coach a tempo pieno. Ed è rimasto in sella quando è arrivato Paul Annacone. Nessuna gelosia, soltanto consigli e proficui scambi d’opinione. In fondo, pochi conoscono Federer meglio di Luthi. “Tra noi si è creata una combinazione perfetta – ha detto Federer – ci intendiamo su qualsiasi aspetto, da quelli tecnici alla tempistica per le vacanze”. Luthi l’ha visto per la prima volta nel 1994, quando Roger aveva 13 anni. “Ho subito capito che sarebbe diventato forte. Ciò che mi ha impressionato è che migliorava costantemente di volta in volta”. Con l’arrivo di Annacone è rimasto al suo posto, e ha gestito Federer anche prima che arrivasse Stefan Edberg. Anche con lo svedese la sinergia è perfetta. C’è tanto di Luthi nell’ottimo 2014 di Federer e, naturalmente, nel trionfo in Coppa Davis. La sua fama è rapidamente cresciuta, tanto che lo stesso Wawrinka gli chiede qualche consiglio al di fuori del contesto “istituzionale” della Davis. “Sono consapevole di essere un privilegiato – dice Luthi – apprezzo i benefici che altri coach non hanno. D’altra parte non mi aspetto certo di passare la mia vita volando su un jet privato”. Federer gli ha prosciugato il tempo libero, eppure anche lui ha le sue passioni. Gli piace il paracadutismo, tanto da aver fatto una decina di lanci, segue l’SC Berna di hockey su ghiaccio e gioca spesso a calcio con gli amici. “Il futuro? Non so, prenderò quel che verrà. Magari avrò finalmente una famiglia mia, ma credo proprio che resterò nel mondo del tennis. E' quello che conosco meglio”. Non avremo mai la controprova, ma chissà se senza di lui i pezzi del puzzle rossocrociato si sarebbero messi a posto. Però non vi aspettate che si prenda qualche merito. “Un coach deve adattarsi al giocatore. Io non impongo mai niente. E' buono avere una guida, ma io sono convinto di una cosa: puoi essere il miglior allenatore del mondo, ma se non hai a disposizione buoni giocatori i risultati non arrivano”. Ma può succedere il contrario. “Seve” è stato bravo a evitarlo.