L'INTERVISTA – A tu per tu con Sergiy Stakhovsky, l'uomo delle mille polemiche. Anche con noi, l'ucraino non si è nascosto e ha detto la sua senza peli sulla lingua.

Di Marco Caldara (*) – 19 dicembre 2014

 

Per molti rimarrà sempre “quello che ha battuto Federer a Wimbledon”, ma Sergiy Stakhovsky è molto di più. È un personaggio con carisma da vendere: parla cinque lingue e vanta interessi nei campi più disparati, dagli antichi classici russi alla politica. Mai entrato fra i primi 30 del mondo, è sicuramente più in vista di tanti altri colleghi di ben altro blasone, e non solo per la storica vittoria contro il Re nel Tempio. La sua popolarità se l’è costruita principalmente fuori dal campo, con le parole e i fatti. Ogni volta che apre bocca, il tennista di Kiev lascia il segno indistintamente dall’argomento, sia questo sportivo, etico o politico. E non fa differenza se la politica è quella dell’ATP o della sua amata Ucraina, da mesi al centro dell’attenzione per il conflitto con la Russia. La sua opinione? Basta guardarne l’immagine del profilo Facebook: una bandiera ucraina con una striscia nera in segno di lutto. Secondo di tre fratelli, è cresciuto in una famiglia nobile e non ha mai dovuto affrontare i problemi economici comuni a buona parte dei tennisti dell’Est; eppure si batte da anni per un circuito migliore, in cui tutti possano guadagnare il giusto. Non a caso è entrato a far parte nel 2012 dell’ATP Player Council, di cui è sicuramente uno dei membri più vivaci, capace di affrontare qualsiasi argomento, dalla struttura dell’ATP al futuro del tennis, dal doping alle scommesse, dai montepremi al rallentamento delle superfici. Parla senza peli sulla lingua, e ne ha per tutti: ITF, ATP, Wada, fino a una leggenda come Andre Agassi. E, a parte questo, è anche un signor giocatore, dai gesti bianchi, che a 28 anni con una moglie, una figlia e qualche capello bianco avrebbe potuto accontentarsi. Invece non ha smesso di crederci, e per sparare al meglio le ultime cartucce ha scelto addirittura di affidarsi a Le Magicien, Fabrice Santoro.
 


È una situazione pessima, di guerra, creata dalla Russia. Sono successe un sacco di cose negative, tantissimi soldati sono morti da ambedue le parti. L’unica via per stabilizzare la situazione, probabilmente, è quella di cedere alla Russia una parte del nostro Paese, anche se a lungo termine non servirà. Entrambe le parti vogliono fermare le guerra, ma in questo momento è molto difficile.
 


Non leggo molto i giornali, e non guardo troppo la televisione, perché non sempre dicono la verità. Ogni canale d’informazione trasmette le notizie dalla propria angolazione, e non è quello che io sto cercando. Preferisco informami direttamente: ho un paio di buoni amici che vivono nella zona della guerra e la combattono. Le principali notizie che ho arrivano da loro. A Kiev ho la mia famiglia, ma la città è molto lontana da ciò che sta succedendo a Est del Paese. Per esempio, sarebbe come essere qui (a Ortisei, dove l’abbiamo incontrato, ndr) mentre qualcosa sta succedendo a Parigi. Non lo senti, non provi su te stesso una guerra che si combatte a chilometri e chilometri di distanza.
 


È stata una decisione sbagliata e affrettata, non necessaria. Il Davis Cup Committee è venuto in Ucraina, a Kiev, e con l’aiuto di una compagnia d’investigazione hanno analizzato la situazione della città per capire se era un posto sicuro per giocare. Il Commitee è tornato dall’ITF con una risposta positiva, ma non è bastato. Il venerdì sera, alle 16.40, la nostra Federazione ha ricevuto una mail dall’ITF, in cui veniva spiegato che il board si sarebbe riunito in un meeting per prendere la decisione definitiva. Il lunedì mattina alle 10.40 abbiamo ricevuto la comunicazione della decisione dell’ITF di giocare altrove. La mia domanda è, dove si sono incontrati? Nel weekend? Sono 12 persone, da Ricci Bitti in giù, fatico a credere che abbiano organizzato il meeting da venerdì sera a lunedì mattina come ci hanno riportato. Hanno solo aperto i giornali e deciso, senza venire di persona a valutare la situazione. Hanno preso una decisione basata sul nulla.
 


Ne sono certo. Altrimenti non sarebbe successo. E purtroppo la loro non è stata una questione etica, ma solo legata al singolo evento. Gli faceva comodo così. Avremmo giocato per la prima volta uno spareggio per il World Group davanti al nostro pubblico, e c’era un impianto da 5500 persone pronte a fare il tifo per noi. Invece ce l’hanno tolto, obbligandoci a giocare in campo neutro in Estonia, davanti a 100 ucraini.
 


Non sempre dietro ai miei tweet c’è un secondo fine. Spesso sono legati solamente a ciò che mi passa per la testa in quel momento, non penso molto né agli effetti né alle conseguenze di quello che scrivo. Dico semplicemente quello che penso. In quel caso la mia reazione era in parte sarcastica, e in parte causata della rabbia verso la Federazione belga. Ma alla fine, quando ho ricevuto una risposta dalla direttrice del torneo di Mons, ho capito che l’aveva presa male dal punto di vista personale. Io non avevo assolutamente nulla contro il torneo, solamente non volevo giocare quella settimana e ce l’avevo con la loro federazione. Sfortunatamente, dopo le risposte che mi hanno dato, ora ce l’ho anche con loro.
 


Sfortunatamente, ma proprio sfortunatamente, nel 2012 mi sono presentato in Australia con numerosi punti di discussione da esporre all’ATP, cose che mancavano e non andavano. Quando è arrivato il momento delle elezioni per il rinnovo del consiglio, che si tengono a Wimbledon, molti giocatori mi hanno avvicinato dicendomi: “Se hai tutte queste idee da portare, perché non ti candidi?”. A quel punto sono stato quasi costretto, altrimenti tutto quello che avevo detto in Australia sarebbe risultato vano. Tanti giocatori hanno votato per me, ed eccomi qui.
 


Non credo di essere il più attivo, ma quello che parla di più fuori dal consiglio, quindi con i media e tramite i social network. Penso che ogni membro del consiglio provi a fare il massimo.
 


Dobbiamo cercare di parlare con i giocatori e soprattutto ascoltare le loro proposte, per migliorare certe situazioni o crearne di nuove. Poi, un paio di volte l’anno, anche se nel 2014 sono state quattro, ci troviamo al tavolo con i vari direttori dei tornei a discutere le varie idee. Sfortunatamente per noi, spesso è difficile far capire ai tornei il significato di ciò per cui ci battiamo, e poi la sponda dei tornei è rappresentata quasi solo dai Masters 1000. Ad esempio, se proviamo a fare qualcosa per migliorare gli ATP 250, a loro interessa poco.
 


Se guardiamo la situazione da una prospettiva di business, noi giocatori siamo il prodotto che crea il valore dell’ATP, quindi se siamo tutti uniti possiamo cambiare qualsiasi cosa. Il problema è pensarla tutti allo stesso modo, anche se negli ultimi due anni siamo stati abbastanza fortunati.
 


Personalmente lo considero ottimo: adoro giocare sull’erba, quindi la settimana in più tra Roland Garros e Wimbledon è molto gradita. Ma è così per tutti, due settimane di preparazione per uno Slam erano troppo poche. Pure Wimbledon ha spinto perché arrivasse questa settimana, dà più risalto anche al loro torneo. E poi abbiamo aggiunto una settimana tra Bercy e le ATP Finals. Allunga la stagione, certo, ma solo per i migliori otto. Se sta bene a loro, sta bene a tutti.
 


Sì, lo dissi nel 2011 o nel 2012, a Melbourne. Ma devo ammettere che il mio pensiero è cambiato. Roger si è impegnato tantissimo per aiutarci ed è anche grazie a lui che abbiamo ottenuto risultati importanti sia con l’Australian Open sia con lo US Open.
 


Sì, ma ancora prima che entrassi io, quindi non sono molto informato. Se non sbaglio lo mollò a Miami nel 2011. Tutto ciò che lui provava a portare veniva rigettato. Non ho mai parlato con lui del suo periodo nel consiglio. È un grandissimo giocatore, ma nel consiglio ogni persona conta per un voto, che sia Nadal o Stakhovsky. È democratico, senza maggioranza non si fa nulla.
 


Loro hanno il problema dei vari contratti che li obbligano a non dire nessuna frase irrazionale, per non danneggiare la loro immagine. Questo significa che pubblicamente non possono dire tutto, ma all’interno del consiglio sì, perché non c’è nulla di pubblico. Fuori è sicuramente più facile per gente come me o Gilles Simon, ma dentro non ci sono vincoli.
 



Quindi forse è meglio siano usciti?
No. Quando si arriva davanti alla dirigenza di un torneo per discutere una determinata questione, avere dei personaggi come loro ha un peso importantissimo. 
 


La mia opinione è chiara e semplice: il prodotto maschile è migliore, quindi meritiamo più soldi. Non ne faccio un discorso di sessi, e nemmeno di durata degli incontri, perché non fa differenza. Ne faccio un discorso di business al 100%. Serena Williams è andata a dire a Simon che ai suoi match c’è molta più gente rispetto a quelli del francese. Certo, facile così. Serena si deve paragonare a Federer, non a Simon. Tra un match di Serena e uno di Federer, per lo stesso prezzo, quale andreste a vedere? E poi i biglietti dei tornei maschili costano di più rispetto a quelli femminili. Quindi, se facciamo guadagnare di più rispetto alle donne, perché dobbiamo incassare quanto loro?
 


Per accorciare i match basta velocizzare le superfici. È facile, non c’è bisogno di accorciare nulla, la formula degli incontri va benissimo così. Il gioco diventa lungo e noioso quando non c’è modo di chiudere i punti, proprio come accade ora a causa del rallentamento progressivo dei campi. Sono tutti lentissimi. Capita che i campi di Roland Garros siano più veloci rispetto a Bercy: assurdo. Io non chiedo i campi dal passato, troppo veloci, ma una via di mezzo. O quantomeno che ci sia una differenza tra indoor e outdoor: ora non c’è più. Anzi, all’aperto le condizioni sono spesso più rapide. E qui la colpa non è nemmeno dell’ATP perché ogni torneo ha la facoltà di decidere la velocità della superficie. Dal mio punto di vista, il rallentamento dei campi ha reso il tennis molto più noioso, ma non tutti la pensano così.
 


I soldi sono una parte importantissima nel tour, ma bisogna anche difendere la tradizione. I tornei in Asia sono ottimi dal punto di vista finanziario, ma la risposta di pubblico è minore rispetto all’Europa. Guardate le ATP Finals di Londra: da cinque anni fanno il sold out a ogni sessione. L’ATP ha ricevuto importanti offerte per riportare quel torneo in Asia, ma non ha intenzione di farlo. Bisogna stare attenti a come ci si muove, per non svilire il circuito. C’è una linea da non superare.
 


Per me è un discorso chiuso, non lo faccio e non lo reputo una cosa giusta da fare.
 


Sì, numerose volte. Ovviamente ho rifiutato, denunciando subito i fatti alla Tennis Integrity Unit. Ma l’errore è alla base. Esempio? Vai all’Australian Open e ti offrono 100mila dollari per perdere al primo turno. Solitamente queste proposte arrivano un paio di giorni prima dell’incontro. Vai in campo, giochi, e dopo 4 ore di fatica stai perdendo al quinto set. Al cambio di campo ti metti a pensare che ti hanno offerto una cifra significativa per perdere, è inevitabile, la menta arriva lì. Ma non è ciò a cui dovresti pensare nel corso di un match. Queste cose non devono succedere, le persone non ci devono avvicinare con proposte simili. Quello che l’ATP sbaglia, secondo me, è intervenire solamente dopo che qualcuno arriva a fare certe richieste. Troppo tardi. Bisogna arrivare prima. 
 


Scommesse bandite dal tennis e problema risolto.
 


In questi casi il giocatore è in una posizione molto difficile da gestire. Decidere non è facile, anche perché non si è mai sicuri di vincere. Perdere al primo turno di un Challenger offre pochi soldi, mentre vendere l’incontro può dare la possibilità di viaggiare altri sei mesi senza badare troppo alle spese. Con più soldi ci si può programmare meglio, viaggiare col coach, fare le cose in maniera migliore, e quindi magari salire nel ranking. A volte la scelta sbagliata, a lungo termine, può dare un risultato migliore rispetto alla scelta giusta. Ma rimane comunque una scelta sbagliata.
 


Non mi va di approfondire il discorso Futures: l’ITF li gestisca come vuole. Dico solo che secondo me lo sta facendo male. Invece di avere venti tornei a settimana in giro per il mondo potrebbero ridurli ma garantire dei montepremi decenti. Evidentemente non lo vogliono fare. Nei challenger invece ci stiamo provando. Il montepremi minimo è diventato di 40mila dollari, e 50mila per i nuovi tornei. Pian piano si migliora, anche se è dura. Ogni torneo fa veramente fatica a raccogliere le sponsorizzazioni, e c’è il rischio che alzando troppo il prize money minimo, tanti di questi non riescano a raggiungere la cifra necessaria per organizzare il torneo (circa il triplo del montepremi, ndr) e siano quindi costretti a chiudere. È un’arma a doppio taglio. L’ideale sarebbe creare un sistema che permetta ai Challenger di finanziarsi da soli. Bisogna fare un importante lavoro di comunicazione e pubblicità, l’ATP non deve guardare quanto gli costa investire su questi tornei, lo deve fare e basta. Se la gente conoscesse anche i giocatori che frequentano i Challenger, questi tornei avrebbero un ritorno molto maggiore. Invece nel tennis si conoscono appena i primi dieci della classifica, degli altri duemila non importa nulla a nessuno.
 


Il doping è ovunque, quindi anche nel tennis, ma credo in percentuale minore rispetto ad altri sport. Siamo molto controllati: quest’anno sono stato testato almeno 15 volte, e non essendo top 50 vengo testato solo durante i tornei, mai a casa. Ma tanta gente si dopa comunque. Il punto è che dove girano i soldi, certa gente è portata a barare per raggiungerli. Il doping è sempre un passo avanti rispetto all’antidoping e appena scoprono una sostanza, ne è già nata un’altra. In più, penso serva un po’ d’onestà. Guardate Lance Armstrong, pubblicamente ha detto un milione di volte di essere pulito, e poi? Dieci anni dopo ha ammesso di essersi dopato. Mi chiedo come abbia fatto per tutti questi anni a mentire alla gente guardandola negli occhi. In parte, è stato così anche per Agassi. Ha scritto un libro in cui ha ammesso di aver usato doping, e non conta quale, come o quando. E dopo ha battuto tanta gente pulita, senza che nessuno gli dicesse nulla. L’ATP sapeva, ma l’ha lasciato continuare, assumendo una posizione sbagliata.
 


Non saprei indicare un modo, ma avrebbero dovuto punirlo. Anche prima. Invece hanno fatto finta di niente. Pochi mesi dopo il libro, Agassi ha giocato un match di esibizione durante il torneo di Indian Wells, in uno stadio gremito. Io personalmente non ho nulla contro di lui, lo reputo un grande giocatore, ma non posso accettare di vedere negli spogliatoi accanto a noi una persona che ha barato.
 


Conosco Viktor da moltissimo tempo, e posso affermare che è senza dubbio uno dei più grandi lavoratori del circuito. Sul suo caso, io credo di più alla sua versione rispetto a quella della Wada. E non è normale che l’infermiera protagonista della questione, che sbagliando ha garantito a Viktor l’assenza di conseguenze, lavori ancora per loro. Penso gli abbiano rubato un anno della sua vita e della sua carriera.
 


Andrebbe bene una percentuale tra il 25 e il 30%. Va detto che negli ultimi anni è aumentata, ma si può crescere ancora. Ci stiamo lavorando. L’Australian Open è il torneo che ha guidato il cambiamento, e ancora oggi è quello che ci riserva la fetta maggiore. Continuano a cercare modi per restituire ai giocatori il più possibile. Ogni tennista che arriva al loro torneo riceve un assegno di 1500 dollari ancor prima di giocare, che sia in tabellone o nelle qualificazioni: una gran cosa. Gli altri Slam seguono a ruota, cercando di tenere il passo. Quello messo peggio è Roland Garros, che è cresciuto meno degli altri a causa delle numerose decisioni sbagliate che hanno preso negli anni. Allo US Open invece hanno fatto molto, ma ci sono ancora delle disparità. Fino ai quarti il montepremi raddoppia turno dopo turno, poi tra quarti e semifinale triplica, tra semifinale e finale quadruplica. In pieno stile americano ci tengono a fare le cose in grande, a essere il torneo che dà più soldi al vincitore, ma sinceramente non ce n’è bisogno.
 


Molto meno. C’è da togliere circa il 30% di tasse e 120mila dollari di spese, fra viaggi, hotel, staff, attrezzatura e quant’altro. Fra una cosa e l’altra si arriva a meno della metà.
 


400mila dollari netti. Come detto, i tennisti hanno un sacco di spese perché non basta più girare solamente con il coach. Il tennis è diventato uno sport molto fisico, ogni giocatore ha un preparatore atletico e altri membri dello staff. Per avere la chance di salire in classifica, bisogna investire il più possibile in questo verso.
 


Sinceramente non ci ho mai pensato. Al momento stiamo cercando di focalizzare la nostra attenzione sui top 100, per garantire prima a loro una situazione migliore. Quando riusciremo nel primo intento, guarderemo anche più indietro.
 


Non è corretto, perché questo premio viene dato solamente ai migliori 12, ma quei tornei che permettono loro di guadagnarlo sono obbligatori per una fascia di giocatori molto più ampia. Se li rendessero obbligatori solo per loro sarebbe diverso, ma così non va. E in più i soldi spesi per pagare questo bonus, complessivamente circa 8 milioni di euro, non vengono dai tornei, ma sono soldi del tour, prodotti da tutti i giocatori. Dobbiamo pagare noi per i migliori?
 


Il tennis è diventato così fisico a causa delle superfici lente, ma il punto è un altro. Questo sport è tanto fisico quanto mentale, ed è per questo che i ‘vecchi’ ce la fanno ancora. L’esperienza conta tantissimo. I giovani contro i big possono vincere un tie-break su dieci. Quando conta, è fondamentale sapere quale palla giocare, quando giocarla, cosa aspettarsi. La differenza è tutta lì.
 


Tantissimo. Bisogna dare tutto, dedicarci tempo e spendere un sacco di soldi, ma senza alcuna certezza. La gente può anche ripeterti che diventerai un campione, ma senza i risultati non si va da nessuna parte. Anzi, cala la fiducia e un giocatore smette di credere in se stesso. Io sono stato fortunato a vincere nel 2008 il torneo ATP di Zagabria, è stata la svolta della mia carriera. In quel torneo ha capito che potevo competere con i migliori e batterli, e da quel momento è cambiato tutto. Certo, ero già 150 del mondo e avevo pure vinto un paio di Challenger, ma senza quel titolo, in quel periodo, non sarei arrivato dove sono arrivato.
 


Lo conosco molto bene dai tempi in cui giocava, e l’ho sempre ammirato sia come tennista sia come persona. La cosa più importante che cerco in un allenatore è il rapporto di fiducia reciproca, e con Fabrice ho avuto la sensazione di potermi fidare.
 


Lui aveva un tennis unico, distruggeva una dopo l’altra tutte le certezze degli avversari, ma credo che ogni tanto il mio stile di gioco non sia troppo distante dal suo, quindi potrebbe farmi compiere qualche passo in avanti. Abbiamo parlato molto, tatticamente è sempre stato un grandissimo e da questo punto di vista il suo aiuto mi servirà molto. È sempre buona cosa andare in campo con in testa un paio di schemi di gioco.
 


Non credo che una vittoria basti, tutt’altro. Nel tennis un solo risultato conta poco, bisogna farne tanti per salire. Per tutti i giovani è questa la cosa più difficile, trovare continuità ad alti livelli. L’esempio di Bernard Tomic è chiarissimo: ha raggiunto i quarti a Wimbledon a 19 anni, e poi? Non basta vincere solamente un bel match per diventare un altro giocatore.
 



Vero, però la tua vittoria contro Federer a Wimbledon vale una carriera.
Non direi. Certo, è stato un successo incredibile, quello che ogni giocatore sogna. Sono onorato di essere entrato nel club di coloro che hanno battuto Federer e ancor di più di avercela fatta sul Centrale di Wimbledon, ma non mi ha cambiato la vita. Ho superato il secondo turno a Wimbledon, che non è certo l’obiettivo della mia carriera. Mi ha fatto tantissima pubblicità, ma tennisticamente sono rimasto lo stesso di prima. Al round dopo ho perso contro Melzer e poi ho fatto quattro primi turni di fila. Forse è stato addirittura peggio: batti Federer e poi perdi da gente molto inferiore, non è una bella sensazione.
 


Spesso, quando si è in vantaggio contro giocatori come Roger, diventa difficilissimo gestire il match dal punto di vista mentale. Si inizia a pensare alla possibile vittoria e nella testa sorgono un sacco di domande. Ce la posso fare? Sarò in grado? È l’immagine del giocatore che hai davanti a frenarti, non tanto il suo tennis. Se sei in vantaggio significa che stai giocando meglio, ma pensare troppo al nome di chi stai per battere può giocare brutti scherzi. Sorgono dei dubbi, ti distrai e perdi.
 


Fortuna…
 


Ho iniziato a giocare in questo modo a 14 anni, mi piaceva, non lo faceva nessuno. Io sono cresciuto ammirando Rafter e Sampras che giocavano così. Non ho mai pensato di fermarmi perché non me lo posso permettere. Da fondocampo sono troppo scarso, se non facessi serve&volley sarei 500 al mondo (ride, ndr).
 


Da giocatore non mi dispiace, perché soffro molto i tennisti col mio stile, che vengono spesso a rete. Preferisco giocare con gli altri, poco abituati ad affrontare noi attaccanti. Per lo spettacolo invece è sicuramente una cattiva notizia. Ma è inevitabile, con queste superfici è facilissimo passare, o si colpisce sempre la palla alla perfezione o non si vince un punto.
 


In singolare era un record, poi Gulbis mi ha superato. Lui è a quota otto, sei in singolare e due in doppio.
 


Anche di Benneteau… (il giocatore francese ha fin qui perso tutte le 10 finali ATP raggiunte in singolare, ndr)
 


Assolutamente no. È uno sport solitario, che logora la persona dal punto di vista mentale. Bisogna lasciare completamente da parte la propria vita personale, le amicizie, gli studi e quant’altro. E poi non c’è nulla di garantito: uno si può impegnare quanto vuole, ma arriva a sera e non è cambiato nulla. In pochissimi vivono di tennis. Arrivare 150/200 del mondo in tanti sport è un grande risultato, mentre nel tennis non è nulla. O si va oltre o sono solamente anni sprecati. E quando smetti non sai fare altro.
 


Si, ma non bene. Non voglio spostare la mia attenzione lontano dal tennis. Ci sono tante direzioni in cui mi piacerebbe andare, il tennis fa parte di queste, ma è sicuramente l’ultima opzione. La strada che più mi ispira è il desiderio di fare qualcosa per aiutare lo sport ucraino a crescere, lavorando magari a contatto con il Comitato Olimpico o il Ministero dello Sport. Mi sono sempre ispirato a Sergey Bubka, un autentico modello per la mia famiglia, oltre che un grande uomo e un grande sportivo. Lui ha fatto tanto per lo sport in Ucraina, e mi piacerebbe almeno in parte seguirne le orme.
 


La politica è un ambiente molto sporco, immorale. Dovrei fare cose di cui non andrei fiero, e non credo sarò mai disposto ad accettarlo.

(*) Intervista tratta da TENNISBEST Magazine