Ryan Harrison aveva perso l'umiltà. Pensava che giocare i challenger fosse un insulto. Adesso, con il coach che lo aveva portato lassù, vince il torneo di Happy Valley. Ha davvero imparato la lezione?

Di Riccardo Bisti – 12 gennaio 2015

 

Non vuole sentir parlare di “turning point” o punto di svolta, per dirla all'italiana. Ma la suggestione è forte. Reduce da una stagione fallimentare, che lo ha portato fin quasi fuori dai top-200, Ryan Harrison ha fatto il punto della situazione. Ha capito di aver commesso un mucchio di errori, tanto da giustificare quelli che dicevano senza pietà: “Guardate Harrison, non ha combinato niente!”. Eppure, a quasi 23 anni, perchè darsi per vinto? Perchè dare ragione a Pete Sampras che vede un futuro nero per il tennis americano? Per ritrovare se stesso, è tornato al passato. Insieme a coach Grant Doyle, il 16 luglio 2012 era salito al numero 43 ATP. Lo vedevano già tra i top-20, forse anche più su. Invece la carriera del texano è diventata un incubo. E non ci sono neanche infortuni di mezzo, a parte un problema a fine 2013 che però non ha influito sulla programmazione. Lo scorso anno, seccato per il rendimento 2013, disse di aver pianificato un progetto a lungo termine che prevedeva l'ingresso tra i primi 10. “Ma come prima cosa devo tornare tra i top-50”. Risultato? Ha chiuso l'anno al numero 192 ATP. Un fallimento con forti implicazioni mentali. Non è un caso che nei challenger abbia raggiunto appena due quarti di finale (Irving e Charlottesville), mentre si era qualificato per quattro tappe ATP, tra cui Wimbledon. Era come se non si capacitasse di essere tornato nella serie B del tennis. E allora, la catarsi nel bagno dell'umiltà. Con lui, di nuovo Grant Doyle dopo due anni di tentativi più o meno fallimentari. “Abbiamo uno splendido rapporto – dice Harrison – la sua è una voce familiare. Mi ha restituito la fiducia, l'impressione che se gioco bene posso battere chiunque”. Per tornare a lavorare con lui, gli ha chiesto di abbandonare l'incarico con Tennis Australia. Lui lo ha assecondato: terminerà i suoi impegni entro l'estate australiana, poi viaggerà a tempo pieno con Ryan.


LA MENTE NON E' PIU' OFFUSCATA

Ed ecco i primi risultati. Harrison si è calato finalmente con umiltà nella realtà dei challenger e ha vinto il neonato evento di Happy Valley, il “City of Onkaparinga”. In finale ha battuto un altro nobile decaduto come Marcos Baghdatis. In una finale degna del circuito ATP, si è imposto col punteggio di 7-6 6-4. Sono lontani i tempi in cui passò un turno a Houston, diventando il terzo più giovane di sempre a vincere una partita nel circuito maggiore dopo Rafael Nadal e Richard Gasquet. Se Rafa è un termine di paragone irraggiungibile, Gasquet si poteva prendere a esempio. Invece si è 'scottato' rapidamente. E non ha accettato l'ovvio ridimensionamento. “Baghdatis sta di nuovo giocando come un top-20 – ha detto – mi aspetto di ritrovarlo di nuovo lassù. Poi in Australia gioca sempre bene ed è amato dal pubblico”. Come a dire che, in fondo, quel livello fa anche per lui. Ryan non è più un ragazzino, l'ombra del padre non è più così ingombrante. Insomma, ci sono le premesse per una rinascita. “Non vorrei pensare a questo successo come un punto di svolta, ma è un bel risultato. Quando ho iniziato a perdere qualche partita di troppo ho iniziato a guardare la classifica con preoccupazione e ho dato troppa importanza alla stampa e ai media, che mi chiedevano perchè andassi nella direzione sbagliata. Mi si è offuscata la mente e mi sono distratto. Ma adesso so di avere le qualità per tornare tra i top-50, magari anche tra i top-20”.  Adesso c'è un tabellone principale da conquistare. All'Australian Open giocherà le qualificazioni, con la speranza di tornare tra i grandi e magari vincere la prima partita in carriera contro un top-10. Dopo venti sconfitte, sarebbe anche ora.