La risposta definitiva ce l’avremo fra una ventina d’anni, ma agli italiani non piace aspettare. Siamo abituati a schierarci: Coppi o Bartali, Milan o Inter, destra o sinistra, Federer o Nadal, e perfino Gianluigi Quinzi o Matteo Donati. Gli appassionati di tennis sono fatti così, invece che dividere le fiches preferiscono puntarle tutte da una sola parte, a sensazione, sperando di averci visto giusto. Nelle ultime settimane hanno avuto la possibilità di capirci molto, scegliendo su chi dei due potenziali ‘crack’ della racchetta azzurra investire le corde vocali. Donati e Quinzi si sono inseguiti fra i Challenger di Napoli, Vercelli e Torino, e nelle pre-qualificazioni degli Internazionali d’Italia: una programmazione identica che ha generato una sorta di testa a testa negli occhi dei tifosi, per ora favorevole a Donati. Non tanto per la classifica (che per ora lo premia, specie dopo l'exploit al Foro Italico) quanto per il livello espresso nella splendida cavalcata che l’ha condotto in finale al ricco Challenger di Napoli. Un risultato che un italiano non raggiungeva in età così giovane da quando un Fognini 19enne arrivò in finale a Santiago del Cile. Ma siamo così sicuri che i nostri due giovani più interessanti sapranno (almeno) raggiungere i risultati conseguiti da Fogna?
L'EQUILIBRIO DI QUINZI
L’abbiamo chiesto a coloro che li possono raccontare meglio: chi frequenta i loro stessi tornei, o nell’ultimo periodo si è trovato dall’altra parte della rete, a saggiarne colpi e ambizioni. Fra chi ci ha perso e chi invece ci ha vinto di misura, nessuno ha voluto sbilanciarsi su chi dei due potrebbe arrivare più in alto. “Il tennis non è una scienza esatta”, dicono. Vero. Ma ognuno la sua opinione se l’è fatta. In tribuna, davanti a un pc e pure negli spogliatoi. Tuttavia, quella maschera di politically correct tanto cara ai top player si è diffusa anche a livelli più bassi, e si fa ancora più spessa quando l’invito è a parlare dei connazionali. Un problema che non ha l’olandese Igor Sijsling, uno che è stato a ridosso dei primi 50 e negli ultimi anni, una decina di top venti li ha battuti, ma al Challenger di Vercelli si è inginocchiato a GQ: “Ricordavo avesse vinto Wimbledon juniores un paio d’anni fa – racconta – ma non l’avevo mai visto prima. Un solo match è troppo poco per giudicarlo, ma se il suo livello è sempre questo può diventare un buonissimo giocatore”. Indirettamente, l’olandese estrae il problema della costanza di rendimento, discorso spesso un po’ sottovalutato ma importantissimo. Diventare top player significa giocare agli stessi (alti) livelli per almeno due ore al giorno, cinque giorni a settimana, per trenta tornei all’anno e per più anni. Ecco spiegato perché tanti arrivano in alto ma poi non riescono a confermarsi. “Quinzi – prosegue – si muove bene, non ha grossi punti deboli e da fondo campo è molto solido con entrambi i colpi. Nel circuito capita di trovare gente con un gran dritto ma un rovescio non all’altezza. I suoi invece viaggiano su livelli simili: è molto importante”.
"DONATI? MEGLIO IL ROVESCIO"
Andrea Arnaboldi invece ha perso da Donati, in quel Challenger di Napoli che sa di biglietto da visita per il tennis che conta: “Gioca un tennis facile e la palla gli scorre parecchio. Forse non è continuo e costante come potrebbe, ma è ancora giovane. Tante cose arriveranno col tempo, anche dal punto di vista tattico”. Rispetto all’opinione comune, però, il canturino va controcorrente. “Non ha punti deboli: ha un buon servizio e spinge molto col dritto, ma secondo me il colpo migliore è il rovescio. Entra molto dentro il campo e toglie il tempo agli avversari”. Nel match contro di lui, Donati ha vinto due tie-break, giocati entrambi in maniera eccezionale. Un caso? “Non credo. Giocare bene i punti importanti è una grande qualità, e pare che lui ce l’abbia”. Che sia lui, ancora più di Quinzi, il prospetto su cui puntare? “Difficile dire su chi scommetterei, giocano entrambi bene, punto su tutti e due. Ho una buona opinione anche di Gianluigi: è già pronto per salire nel ranking. Mette grande intensità negli allenamenti, è determinato e ha mezzi importanti. Il gioco non è tutto, è solo una rappresentazione di ciò che uno ha dentro. Lui pare aver qualcosa di importante, è stato inquadrato sin da piccolo”.
MATTEO PUO' ARRIVARE IN ALTO
Nelle interviste recenti, Quinzi l’ha ripetuto a nastro: “La cosa più importante è la testa, stare tranquilli e ascoltare i consigli dell’allenatore. Il resto arriverà”. Di tempo ce n’è ancora parecchio, ma nessuno dei colleghi ha sottolineato chissà quali progressi. Qualcosa si è visto, nell’aggressività e in una migliore ricerca del punto, ma forse troppo poco per uno che ambisce a riagguantare i migliori coetanei, già capaci di salire tanti piani più su. Migliore la situazione di Donati, cresciuto tantissimo nonostante un 2014 a intermittenza per qualche infortunio di troppo. Li ha affrontati con attenzione e fisicamente si è allenato tanto nel corso dell’inverno, presentandosi nel 2015 con un valore ancora tutto da scoprire. “In un anno Donati è migliorato tantissimo – racconta Marco Cecchinato, che a Napoli ha sfidato i due baby uno via l’altro, battendo GQ prima di perdere da Matteo. “Ha cambiato il movimento del servizio ed è cresciuto tanto di diritto: ora sono due colpi veramente pesanti, da giocatore di livello. Magari dalla parte del rovescio ha ancora qualche piccola lacuna, ma è migliorato e lo farà ancora. Idem fisicamente: è cresciuto ma ha ancora margine. Se sistema tutte queste piccole cose può arrivare in alto”. Di Quinzi, invece, piacciono solidità e mentalità. “È un grandissimo agonista, lotta su tutti i punti, e malgrado la sua classifica non lo dica ha già raggiunto un livello superiore. Pian piano lo sta dimostrando. Se devo fare un appunto, non mi è piaciuto troppo il suo comportamento: è stato un match molto teso (il siciliano ha vinto 7-6 al terzo, ndr) e in qualche frangente poteva tenere un atteggiamento migliore”. Di fronte a uno che li ha sfidati entrambi in meno di 24 ore, la domanda era d’obbligo: chi può arrivare più in alto? “Lo chiederei ai loro allenatori. Sicuramente a entrambi non manca molto per fare il grande salto, anche se è più mentale che altro. Entrare fra i top 100 è sempre più complicato, ci sono tanti giocatori di esperienza, oltre i 30 anni, veramente difficili da affrontare”. Lo sa bene lui, che ci orbita intorno da oltre un anno.
L'AMICO STEFANO
E chi li guarda da dietro? Il primo è Stefano Napolitano: li conosce da una vita e ha diviso con loro lo stretto palcoscenico dei tornei giovanili, compresa la maglia della Nazionale nella Junior Davis Cup del 2011. Poi è rimasto un pochino attardato, ma sta recuperando in fretta per avverare l’ultimo sogno del nonno: “Prima di morire voglio vederti giocare in Coppa Davis”, gli ripete dai tempi in cui la racchetta era solo un hobby. “E io sono sicuro che un giorno avrò questa possibilità, insieme a Donati, Quinzi e anche altri giovani emergenti. Si parla più di loro perché in questo momento sono un passo avanti, i risultati lo dimostrano. Io cerco di usarli come punto di riferimento: Gianluigi è un grandissimo agonista, ha doti incredibili e gioca allo stesso livello su tutte le superfici”. E Donati? “Sono un po’ di parte, è un mio grande amico, abbiamo fatto un lungo percorso insieme sin dai tornei under 12. Lo stimo molto e conosco bene i progressi che ha fatto. Credo possa sfondare nel giro di poco tempo, perché non gli manca nulla per riuscirci: serve bene, ha un dritto devastante e un rovescio molto solido. La finale di Napoli non mi ha stupito, e sono certo che da qui alla fine dell’anno ne giocherà altre. Ha già il livello per arrivare in fondo nei tornei tutte le settimane”.
L'OPINIONE DI DIEGO NARGISO
Poi c’è pure chi li osserva e studia da fuori, ma non con l’occhio emotivo dell’appassionato, bensì con quello attento di chi ora fa il coach ma da quelle parti ci è passato. Nessuno meglio di Diego Nargiso, ci può spiegare questa situazione, ora che sta traghettando dei giovani nei gironi del circuito, ma che alla fine degli Anni 80 ha vissuto esattamente la stessa situazione di entrambi. E anche se poi ha combinato meno di quanto ci si aspettasse, la ricetta per arrivare l’ha immagazzinata alla svelta, centrando il best ranking (67) ad appena 18 anni. Ergo, qualche consiglio lo può dare: “Ho parlato con i ragazzi, la strada giusta è quella di credere sempre nei propri mezzi. Sarà un percorso lungo, ma credo che abbiano la possibilità di diventare dei professionisti veri, dei top 100 che fanno del tennis il loro mestiere. Suggerisco di non esaltarsi e continuare a lavorare nei momenti in cui va tutto bene, e allo stesso tempo non abbattersi quando la situazione è più complicata”. Anche lui, però, preferisce non sbilanciarsi. “Credo che di un ragazzo così giovane non si possa dire dove può o non può arrivare. Dipende da cosa uno ha dentro, dai suoi obiettivi e da cosa è disposto a fare per raggiungerli. Guardate Djokovic: ha costruito il suo successo con lavoro, dedizione, fatica e sudore, sino a diventare uno dei più forti di tutti i tempi. Per questo non sono in grado di dire chi farà meglio, non ho la palla di vetro. Preferisco dire che hanno tutti e due ottime possibilità di rappresentare l’Italia ad alto livello nei prossimi dieci anni e credo che ci riusciranno”. Smessi i panni del Nargiso ex giocatore, abbiamo fatto indossare a Diego quelli dell’apprezzato tecnico, a cui Djokovic aveva affidato un top 100 come Filip Krajinovic. “Reputo Donati un giocatore pronto per fare un salto importante. Può già vincere con continuità a livello Challenger, perché è molto solido dal punto di vista mentale, versatile e anche rapido. Servizio e dritto li conosciamo, ma è cresciuto molto anche col rovescio. Prima faceva fatica e tendeva a perdere campo, ora gioca più lungo. È difficile anche solo trovargli qualche aspetto su cui concentrarsi, credo debba continuare a lavorare come sta facendo”. Più complessa, secondo la sua analisi, l’attuale situazione di Quinzi. “È un giocatore di lotta, dal potenziale importante, ma al momento è meno pronto. Ha bisogno di lavorare tanto sul servizio, il colpo meno all’altezza della situazione. Ottiene pochi punti diretti, e di conseguenza quando i match si allungano fa più fatica. Però ha una risposta eccezionale, una delle migliori del circuito. È un aspetto che insieme al servizio conta tantissimo, per non perdere campo e comandare il gioco. Ora lo fa col dritto, il colpo con cui fa più male. È anche quello che gli costa più errori, ma perché prova ad aprirsi il campo. Dalla parte del rovescio, invece, ha bisogno di maggiore profondità, deve lavorare meglio la palla, farla salire un po’ di più”.
SE SON ROSE, FIORIRANNO
Tirando le somme, emerge che le qualità per arrivare in alto ci sono, ma per il momento non dobbiamo aspettarci chissà quali exploit. Quinzi e Donati non sono ancora pronti per irrompere rapidamente fra i primi 100 del mondo, però la strada è quella corretta. Ora bisogna continuare a percorrerla, e non abbattersi di fronte ai tanti ostacoli che inevitabilmente arriveranno. Altro dettaglio da non sottovalutare: il gioco fatto e finito conta fino a un certo punto. L’hanno evidenziato sia Nargiso sia Arnaboldi: “Dipende da cosa uno ha dentro”. Il tennis dei giorni nostri è pieno di esempi, di giocatori che magari non hanno qualità tecniche strepitose, ma hanno fatto quadrare il cerchio con altri mezzi. Oppure ci sono riusciti tardi. Senza arrivare a casi estremi come quello di Victor Estrella Burgos, che dopo una vita fra Challenger e Futures si è scoperto top 50 nell’anno dei 35, l’età media dei top 100 in costante aumento (ora intorno ai 28 anni) gioca a favore di chi matura più tardi. Se è vero, come dicono gli studi di settore, che gli italiani sono i più mammoni d’Europa, significa che i coetanei arrivano prima, ma non necessariamente che finiscano più in alto. Quindi conviene armarsi di un po’ di pazienza. Se son rose, fioriranno. Anche se probabilmente non a 21 anni.