Secondo Martina Navratilova, il comunismo aveva un lato positivo: accettava le donne come atlete di classe mondiale. Non sapeva, o non aveva ancora capito, che in piena Guerra Fredda ogni mezzo era lecito per manifestare una presunta superiorità sull'occidente. Ma ben presto avrebbe capito tutto. Quando aveva 11 anni, il 21 agosto 1968, i carri armati sovietici invasero la sua Cecoslovacchia. Obiettivo? Schiacciare sul nascere qualsiasi ipotesi di riforma. Nella sua autobiografia, scritta nel 1985, descrisse così l'addio alle speranze: “Volevamo creare un socialismo dal volto umano, ci siamo trovati con uno stivale in faccia”. Al di là della cortina di ferro, la vita dei tennisti era tutt'altro che semplice. A dire il vero, gli atleti erano gli unici ad avere qualche privilegio, a poter viaggiare. Lo ha fatto Jan Kodes, sei anni più grande di lei, anche se l'hanno tenuto al guinzaglio. Certo, 'grazie' al comunismo poté evitare lo sciopero dei giocatori nel 1973. Risultato? Vinse la peggiore edizione mai giocata a Wimbledon. Ma gliel'hanno fatta pagare. Qualche mese dopo lo misero davanti a una scelta: mollare il tennis o arruolarsi nell'esercito. Trovarono un accordo: poteva stare a casa sua, ma alle 7 del mattino doveva marcare visita. Gli chiesero di tutto, dei viaggi e delle conoscenze. Ovviamente aveva conosciuto Jaroslav Drobny, che nel 1949 avevo osato disertare. Diciamo che non furono troppo contenti. Ma ormai stava emergendo Martina Navratilova. Le autorità cecoslovacche la sostenevano, ma la guardavano con sospetto. Non gradivano la sua progressiva “americanizzazione”. Intanto si prendevano il 20% dei suoi guadagni ed esercitavano uno stretto controllo sui suoi viaggi e sulla programmazione.
"NON IMPORTA COSA DIRANNO. NON DEVI TORNARE"
In quel periodo, Martina si faceva rappresentare da un certo Fred Barman, la cui base era a Beverly Hills. Nel 1975, prima di Wimbledon, gli chiese di trovare il modo di portare tutta la sua famiglia nell'ambasciata americana e chiedere asilo. “Ma alla fine abbiamo deciso di no – disse la Navratilova – eravamo spaventati dal tipo di vita che avrebbe fatto mio padre e cosa sarebbe accaduto se mi fosse successo qualcosa”. Ma poi il governo esagerò. Diventarono ancora più stringenti e la informarono che non le avrebbero permesso di andare negli Stati Uniti per giocare lo Us Open. Tuttavia il padre, Jan Kodes e un funzionario di nome Stanislav Chvatal si batterono per lei e il viaggio fu approvato. Ma era chiaro che non si poteva andare avanti così. La sera prima di partire, fece una passeggiata con il padre sulle rive del fiume Moldava. “Non importa quello che diranno. No, non devi più tornare”. Con una valigia e quattro racchette, Martina partì verso la libertà. “Per me non fu un grosso trauma – disse – avevo 18 anni, abbastanza grande per pensare di poterlo fare, abbastanza piccola per non pensare alle conseguenze”. Da allora sono passati 40 anni, il mondo è cambiato ma i segni restano. Resteranno per sempre. Il 5 settembre 1975, sulla terra verde del West Side Tennis Club di Forest Hills, giocò uno degli 80 scontri diretti contro Chris Evert. Perse, ma aveva già contattato gli uffici preposti alla naturalizzazione. Fecero tutto in gran segreto. Quel venerdì sera sistemò alcune pratiche con i funzionari governativi e andò a letto. La mattina dopo fu contattata da CBS News per un intervista. Pensando che si trattasse di tennis, accettò di parlare nel pomeriggio. Ma cinque minuti dopo ricevette una chiamata da Vera Sukova, direttrice tecnica in quel di Praga. “Perché l'hai fatto?”. Qualcuno aveva spifferato tutto e il Washington Post ne aveva scritto. Ormai tutti sapevano. Il responsabile delle relazioni pubbliche del Virginia Slims Tour, Jeanie Brinkman, organizzò in fretta e furia una conferenza stampa. Tra decine di microfoni e telecamere, Martina fu chiara: “Io voglio la mia libertà”.
LO SPAZIO AEREO SOVIETICO
La Cecoslovacchia era un ricordo e sarebbero passati undici anni prima che potesse tornare a Praga, peraltro da avversaria, in uno storico incontro di Fed Cup. Accanto al nome di Martina Navratilova c'era la sigla “USA”. Quella sera del 1975, andò a cena con Brinkman e Barman. Il proprietario del locale scherzò: "Ehi, Brinkman, è passato il KGB, ti stava cercando”. Martina scappò dal ristorante e passò i due giorni successivi a casa dello stesso Brinkman, che ricevette una telefonata dall'FBI. Lo informavano che il suo telefono era sotto controllo e che c'era una macchina sotto casa, pronta a intervenire in caso di necessità. Per cinque anni, Martina ha vissuto da apolide, affrontando più di un problema burocratico per viaggiare. Ogni volta che doveva recarsi dall'Europa in Giappone, doveva organizzare il percorso in modo da non passare sopra lo spazio aereo sovietico. Ma il suo coraggio è stato fondamentale, perché ha spinto verso il tennis centinaia di atleti dell'Est Europa. Martina sarebbe stata protagonista di altre rivoluzioni. Il coming out sulla sua natura sessuale, certo, ma anche il fitness. Nei primi anni 80 fu la prima tennista ad andare in palestra e seguire una dieta specifica. Vinse 18 Slam, tra cui 9 Wimbledon. E' diventata una leggenda. In questi giorni è già a New York e sarà certamente concentrata sulle cose da fare, a partire dal lavoro per Tennis Channel. Ma il 5 settembre, di sicuro, ripenserà a quella ragazzina di 18 anni che prese una decisione coraggiosa e importante. Chissà, forse ha accelerato la fine della Guerra Fredda e la diffusione della democrazia. Nell'autunno del 1975 si trasferì presso la casa di Barman e Beverly Hills e si fece un regalo: una Mercedes 450SL, color argento. Sulla targa c'era una scritta facile facile: X-CZECH. L'America è talmente libera che puoi persino personalizzare le targhe automobilistiche.